Elenco blog personale

mercoledì 31 dicembre 2014

Buon anno a tutti!!

(Immagine da http://www.frasifb.it/)



Che il 2015 ci restituisca tutto quello che il 2014 ci ha tolto:
- i sogni, i desideri, la speranza ai giovani
- i diritti alle persone che hanno più bisogno di tutele
- il senso di responsabilità a chi deve, per il ruolo sociale che svolge, prendersi cura degli altri
- la dignità del lavoro a chi non ce l’ha o lo ha perso
- la passione per il proprio lavoro ai fortunati che ce l’hanno
- l’orgoglio di essere italiani a tutti noi

lunedì 29 dicembre 2014

Il tema e il corsivo. Due discussioni sulla scrittura


Un paio di temi di discussione apparsi sulla rete e nei quotidiani negli ultimi giorni ci spingono a riflettere  sull’insegnamento della scrittura a scuola.

La prima discussione riguarda il tema. Aperto da un intervento di Francesco Dell’Oro sul Corriere della Sera (La scuola che non sa scrivere), pone l’attenzione sul fatto che le persone della generazione dell’autore (che è il responsabile del Servizio di Orientamento Scolastico del Comune di Milano) non sanno scrivere. E propone perciò l’abolizione del tema in classe e la sua sostituzione con dei laboratori di scrittura. “È così difficile avviare nelle nostre scuole un laboratorio di scrittura? Non costa nulla. Facciamolo! Ma quattro o cinque volte al mese e con due momenti di valutazione nel quadrimestre. L’obiettivo non è quello di misurarli a ogni tentativo di scrittura, ma di appassionarli a questo esercizio. Vivaddio, che si tengano sul banco quello che vogliono. Devono imparare a scrivere! A tritare e a sbrogliare le informazioni. Che è poi quello che facciamo, ogni volta, noi adulti quando dobbiamo preparare un articolo, scrivere un libro o altro.

Gli ha replicato Armando Massarenti su Il Sole 24 Ore (Col tema si impara a ragionare) difendendo, invece,  l'importanza dell'argomentazione, della logica, che sarebbero al centro del tema, di contro alla creatività che si vorrebbe sviluppare nei laboratori di scrittura.
La discussione, francamente, non mi ha entusiasmato. Vi ho ritrovato tesi ed argomentazioni vecchie di decenni lontanissime da quelli che sono gli approdi della ricerca didattica sulla produzione scritta. Credo che il problema sia quello che ho segnalato in altri post di questo blog: la mancanza in molti interventi della stampa e della rete di una cultura scientifica delle cose dell’educazione. Se la discussione, invece di vertere su di una questione didattica avesse riguardato una questione sanitaria o economica o tecnologica credo che si sarebbe richiesto il parere di un esperto, di qualcuno cioè che opera nel settore e che, soprattutto, ha fatto e fa ricerca. Questo non accade praticamente mai quando si parla di scuola. Ecco perché gli interventi nelle discussioni sono spesso di una banalità disarmante.
Più vivace la discussione sul corsivo. Il pretesto è stato fornito dalla notizia, in parte erronea, che in Finlandia è stato abolito l’insegnamento della scrittura in corsivo nella scuola. La questione non è nuova. Già altri paesi si sono orientati nella stessa direzione della Finlandia ritenendolo un oggetto antiquato non più funzionale e perciò inutile. Particolarmente radicale a questo proposito, la posizione di Italo Farnetani pediatra ed esperto del mondo dei bambini e del loro linguaggio. “Dal punto di vista psicopedagogico i bambini hanno bisogno per crescere che ci sia una continuità tra lo stile di vita, la relazione con l’ambiente e quello che gli viene proposto a scuola. Se il corsivo ormai non esiste sui libri che leggiamo, né sul computer, né su Internet, né sugli smartphone, né sui social network, perché usarlo a scuola?”.
Naturalmente ci sono molti che, invece, si sono schierati in difesa dell’insegnamento del corsivo rilevando l’importanza dell’apprendimento del corsivo nello sviluppo psicologico e cognitivo dei bambini e segnatamente “quanto sia cruciale nella crescita, nel rapporto occhio-mano, nella sequenzialità delle parole che si riflette in sequenzialità del pensiero, nell’originalità del tratto e nelle competenze di analisi e sintesi in rapida sequenza. […] Ha una valenza profonda nell’acquisizione di competenze basilari di ordine cognitivo e psicomotorio e di abilità manuali e di pensiero”. (Bye bye, corsivo. E l’America si divide).
Personalmente non ho una posizione ben definita in materia perché non sono un esperto di insegnamento di scrittura ai bambini. Ho solo il ricordo della fatica che ho fatto ad imparare a scrivere in corsivo (ho ancora una pessima grafia come mi dicevano i miei genitori e mi ricordano ancora il DSGA e gli assistenti amministrativi della scuola quando devono leggere ed interpretare i miei appunti scritti a mano). Ma conservo ancora il gusto dello scrivere con la stilografica, su carta di qualità e, soprattutto, mi fa tanto piacere quando ricevo un biglietto di auguri o di saluti scritto a mano. Mi hanno perciò molto colpito le osservazioni contenute in un interessantissimo sito, Scrittura Corsiva, di Monica Dengo.
Ma mi sembra giusto affidarmi agli esperti. Cosa dicono i docenti della primaria in proposito?

sabato 27 dicembre 2014

Buon anniversario, Neuromante!

(immagine da www.librimondadori.it/)

Sono trascorsi esattamente trent’anni da quando fu pubblicato la prima volta il romanzo di William Gibson, Neuromante (Neuromancer). Si tratta di un’opera importante perché è considerata la capostipite di un vero e proprio genere letterario, il cyberpunk. Neuromante forse non è un grande capolavoro letterario: lo stile è per me a volte troppo “barocco” e faccio fatica a seguire il filo della narrazione a causa delle numerose espressioni gergali. Altri romanzi cyberpunk sono forse più riusciti sul piano letterario. Ma si tratta comunque un’opera fondamentale. A differenza di altri romanzi dello stesso genere, infatti, possiede una straordinaria capacità profetica. Anticipa cioè, in maniera davvero sconvolgente, alcuni degli scenari del nostro attuale presente, ben difficili da prevedere trent’anni fa.
Il cyberspazio, innanzitutto. Molto prima che nascesse il World Wide Web Gibson ci parla di una realtà virtuale nella quale una rete universale di dati ha creato un ambiente artificiale all’interno del quale gli umani possono entrare e viaggiare, vivendo sensazioni ed emozioni. Viene tratteggiato poi il dominio pervasivo delle grandi multinazionali dell’informazione che sfruttano il potere loro fornito dal controllo dei grandi archivi di dati. E, non ultime, le radicali modifiche che la tecnologia ha apportato alla vita degli uomini, modifiche che non erano state previste dai suoi creatori. “La strada trova da sola i suoi usi delle cose”: i corpi sono dotati di protesi meccaniche mentre droghe sintetiche e ingegneria neuronale modificano i cervelli delle persone.
La visione cyberpunk è manifestamente pessimistica, nella più genuina tradizione distopica della science fiction americana: “è la constatazione che la tecnologia non possiede un'intrinseca natura se non quella che le viene dai più profondi istinti umani. E poiché nell'intimo siamo ancora più propensi alla sopraffazione che all'altruismo, ecco che la tecnologia (apparentemente pacifica) del XXI secolo può metterci in catene. Non a caso i protagonisti dei romanzi sono degli hacker solitari che vivono ai margini della società, in costante fuga da questa cupa realtà e, in qualche misura, la combattono.” (Nicola La Gioia, "Neuromante", quel capolavoro rivoluzionario che ha anticipato il XXI secolo)
Non potevo non collegare l’anniversario di questo romanzo ad un articolo apparso qualche giorno fa su l’Espresso: Siamo tutti sudditi di Google e Facebook. Si tratta di un articolo che evidenzia il potere acquisito dalle aziende della Silicon Valley “attraverso il controllo dei dati personali di miliardi di persone e dall’immensa forza derivante dal fatto che i loro prodotti - motori di ricerca, mail, social network etc - sono sempre più indispensabili nella vita quotidiana di tutti. E se oggi si facesse un referendum per chiedere se rinunciare a Facebook o al Parlamento, chissà come andrebbe a finire”. Appare uno scenario più simile all’universo distopico di Neuromante che non a quello ottimista descritto da qualche guru del web. Un’analisi altrettanto lucida la possiamo trovare anche nel libro di Federico Rampini, Rete Padrona, la cui lettura consiglio caldamente a chi vuole avere un’idea precisa e critica di dove ci può condurre una tecnologia dell’informazione e della comunicazione senza regole.

Cosa c’entra la scuola in tutto questo? Io credo che rivesta un ruolo molto importante. Deve cercare di resistere alla tentazione delle sirene che illudono che nelle tecnologie ci siano tutte le scorciatoie per risolvere ogni problema di insegnamento ed apprendimento. Deve, soprattutto, educare. Educare all’uso critico e critico della tecnologia, che consenta di rendere la vita migliore a tutti noi e non ci renda dei consumatori dipendenti in balia del potere di pochi.

mercoledì 24 dicembre 2014

Regali di Natale


A Natale il nostro pensiero è occupato dai regali che dobbiamo fare e da quelli che vorremmo ricevere. Provo a pensarci anche io, da dirigente scolastico.
Quali regali possono desiderare le persone che si fanno parte della comunità scolastica?
I docenti, innanzitutto. Credo che desiderino migliori condizioni di lavoro (stabilità, organici adeguati, risorse economiche e materiali idonee, retribuzione dignitosa) ma soprattutto rispetto e considerazione per il loro difficile e faticoso lavoro. Vogliono il giusto riconoscimento, da parte dell’opinione pubblica e dei politici, per l’impegno che dedicano quotidianamente a svolgere un compito così delicato e importante.
Il personale ATA. Penso di non sbagliare se ritengo che sia la categoria del mondo della scuola le cui condizioni di lavoro sono maggiormente peggiorate negli ultimi anni. I tagli del personale rendono molto più gravoso il compito dei collaboratori scolastici costretti a garantire la pulizia e la vigilanza di spazi sempre più grandi, mentre i compiti degli amministrativi si sono resi con l’autonomia sempre più complessi e specialistici. Ma credo che chiederebbero anche una maggiore considerazione per il loro lavoro perché, senza di questo, la scuola non potrebbe assolutamente funzionare.
Credo che i genitori desiderino poi che ai propri figli non manchi niente, nonostante la grave crisi che stiamo attraversando. Vogliono assicurare ai loro ragazzi tutte le opportunità di cui hanno bisogno per potersi realizzare nella vita futura e per questo si sottopongono a dei sacrifici, spesso molto pesanti.
E, infine, i ragazzi. Vogliono un ambiente scolastico sereno che li accolga e li guidi fornendo dei punti di riferimento solidi e precisi. Vogliono crescere e imparare perché conservano ancora il gusto della scoperta e il piacere di riuscire a far bene qualcosa. Vogliono che la scuola li apra al futuro, li aiuti a crescere.
Ma cosa possiamo regalare loro?
Stiamo attraversando un difficile e lungo periodo di crisi. Una crisi che avrà delle lunghe e importanti conseguenze sul futuro perché, come ho già osservato in altri post di questo blog, non colpisce tutti allo stesso modo. In particolare, nel nostro paese soprattutto, penalizza maggiormente chi è meno fortunato. Si ha l’impressione che da questa crisi usciremo, quando ne usciremo, con una società non solo più povera ma anche più ingiusta, con differenze maggiori tra ricchi e poveri, più competitiva e meno solidale, più incolta, con meno diritti per tutti, con minori attenzioni per chi ha più bisogno. La scuola, la scuola pubblica, la scuola di tutti, può avere un ruolo importante per combattere questa deriva facendo in modo di salvaguardare quella qualità che tutela soprattutto chi è più debole ed ha maggior bisogno di una formazione attenta a tutti i bisogni educativi.
Esiste certo una tentazione forte tra gli operatori scolastici ed è quella, di fronte ai tagli e al disinteresse della politica, di fare il minimo indispensabile, di limitarsi a solo quello che si ritiene sia congruo rispetto alle condizioni in cui si lavora. È evidente però che una riduzione quantitativa e qualitativa dell’offerta formativa non può che penalizzare soprattutto chi ha più bisogno, chi dispone di minori risorse, chi è meno supportato dalla famiglia.
Ma non è questa la scelta della nostra scuola. Cerchiamo - anche se questo ci richiede un impegno e dei sacrifici maggiori rispetto al passato - di “non far mancar nulla” ai nostri alunni e alle nostre alunne, cerchiamo di fare in modo che la crisi pesi il meno possibile sul loro futuro e che la società nella quale si troveranno a vivere tra qualche anno sia migliore e non peggiore di quella attuale. È questa la nostra missione e questo è il nostro regalo di Natale alla comunità scolastica.

Auguri a tutti di trascorrere queste feste in serenità accanto ai propri cari e grazie di cuore dell’affetto e della stima che mi avete manifestato in questi giorni!

domenica 21 dicembre 2014

Essere inclusivi conviene?


Le Scienze, nel suo numero di dicembre, ci regala uno stimolante dossier dal titolo “L’equazione dell’inclusione”. Il tema degli articoli che compongono il dossier è quello di analizzare gli effetti positivi sulla ricerca scientifica della diversità di genere, etnia, cultura, status sociale dei ricercatori. Le conclusioni sono univoche: la diversità non fa che bene, anzi fa benissimo alla scienza; l’innovazione non può che passare attraverso il confronto costruttivo tra punti di vista diversi. "La diversità fa bene ai gruppi di lavoro proprio perché noi reagiamo in modo diverso a chi è diverso da noi. Se l'obiettivo finale è l'eccellenza, la diversità è un ingrediente essenziale"
Negli articoli, scritti non solo da scienziati ma anche da manager di grandi aziende, vengono riportati i risultati delle ricerche e delle esperienze dirette in materia che mostrano, in modo univoco, quanto la diversità sia portatrice di innovazione e qualità.
Cerco di riassumere le principali argomentazioni. La diversità accresce la creatività, spinge alla ricerca di nuove informazioni e punti di vista, migliora i processi decisionali e la risoluzione dei problemi. Questo perché quando i gruppi di ricerca sono ricchi di diversità cognitiva e sociale i loro componenti si sforzano e lavorano di più, con più diligenza e apertura mentale. L’omogeneità tende, al contrario, a condizionare verso la pigrizia mentale e alla riproposizione delle solite routine. È indubbio che la diversità “fa soffrire” perché ci obbliga ad uno sforzo maggiore di interazione, ma si tratta di una sofferenza che può essere paragonata a quella dell’allenamento sportivo che ci consente di ottenere prestazioni migliori. Si dice in genere – ed è diventata, questa, ormai un’ovvietà – che i migliori gruppi sono più grandi della semplice somma dei loro componenti. Ma ciò sembra accadere solo quando nei gruppi c’è una significativa diversità. Non basta, però, mettere assieme persone diverse perché si possano generare processi virtuosi. Occorrono alcune attenzioni. In particolare occorre che le differenze all’interno del gruppo siano percepite e riconosciute come tali e non ignorate perché in caso contrario si accentuerebbero i pregiudizi. Ma occorre anche che l’organizzazione nella quale il gruppo di ricerca lavora sia strutturata in modo da favorire l’impegno verso la diversità prevedendo anche responsabili in questo settore ed attività e gruppi di azione.
Molto interessante, in uno degli articoli, l’esempio fatto all’interno degli studi pedagogici. Il punto di vista di ricercatrici femminili ha consentito di rivedere in maniera critica i lavori di Kohlberg sullo sviluppo morale del bambino sottolineando l’importanza di quell’etica della cura che ad uno studioso maschio era quasi interamente sfuggita.
Abbiamo bisogno perciò di diversità se vogliamo cambiare, crescere e innovare. Non ce lo dice, questo, stavolta, un sacerdote, un pedagogista o una persona impegnata nel volontariato sociale. Ce lo dicono scienziati e  manager di grandi aziende. Forse che essere inclusivi, oltre che farci sentire migliori, ci conviene e potrebbe essere una buona maniera per uscire dalla crisi?
Un paio di considerazioni da uomo di scuola. Già da decenni sappiamo come l’inclusione delle bambine e dei bambini disabili abbia rappresentato una grande ricchezza per la scuola. Ce lo ha insegnato la grande tradizione italiana di pedagogia e didattica speciale. Molte importanti innovazioni didattiche nei decenni precedenti sono state progettate, sperimentate e implementate proprio nel campo della disabilità rivelandosi, però, utili per tutti gli alunni. Le difficili sfide poste dall’inclusione, cioè, ci hanno costretti a pensare a cose nuove che si sono poi dimostrate in grado di aprirci nuovi orizzonti e prospettive che hanno allargato il bagaglio di strumenti a disposizione di tutti i docenti. Ricordo che qualcuno paragonava l’inclusione alla Formula 1 che studia e sperimenta innovazioni continue che poi hanno ricadute anche sulla produzione delle vetture che utilizziamo quotidianamente anche noi che non siamo dei piloti sportivi. Si potrebbe perciò dire che l’inclusione ha migliorato la professionalità dei docenti costringendoli ad una prova difficile che li ha spinti a ricercare l’innovazione.
Ma la diversità nelle classi migliora anche le relazioni tra i ragazzi costringendo a cercare modalità comunicative più efficaci, a confrontarsi con realtà diverse, con modi di pensare differenti. Le classi eterogenee – ce lo dice anche l’Invalsi! – raggiungono risultati migliori di quelle caratterizzate invece da bassi livelli di differenza. La diversità è un’opportunità che può portare ad una crescita di grande valore educativo e didattico presso i ragazzi se, naturalmente, adeguatamente accompagnata dalle opportune strategie inclusive dei docenti.

Un’ultimissima considerazione. Qualche anno fa Raffaele Iosa evidenziava l’esistenza di una questione maschile nella scuola italiana, soprattutto a livello dei primi gradi d’istruzione. La percentuale elevatissima di docenti femminili, infatti, a suo parere, costituisce la causa più importante dell'inferiorità maschile nei risultati scolastici (i maschi hanno infatti il primato delle bocciature e degli abbandoni). Occorrerebbe forse una maggiore diversità di genere (con un più ampio numero di docenti maschi, stavolta) all’interno dei team della primaria e secondaria di primo grado?

sabato 13 dicembre 2014

I compiti a casa


Ancora una volta l’OCSE ci pone un’interessante questione educativa: quella dei compiti a casa.
Esaminando i dati relativi alle prove Pisa del 2012 (che, come noto, riguardavano gli studenti quindicenni) emerge che, in media, i ragazzi dei paesi OCSE trascorrono cinque ore a settimana nello svolgimento dei compiti.
In tutti i paesi vengono assegnati compiti a casa. Naturalmente le differenze sono notevoli: si passa dalla Cina – Shanghai in cui i ragazzi dedicano quattordici ore alla settimana ai compiti alla Finlandia e alla Corea in cui, invece, le ore sono tre. I ragazzi italiani si collocano ad un livello elevato: dedicano, infatti, quasi nove ore a settimana ai compiti a casa.
Cosa ci dicono questi dati?
Innanzitutto che la quantità dei compiti non ha un impatto rilevante, una volta raggiunta la soglia delle quattro ore a settimana, sul rendimento scolastico e sulla qualità del sistema scolastico. Altri fattori, quali la qualità dell’istruzione e l’organizzazione della scuola, sembrano rivestire un ruolo molto più importante,
Ma, soprattutto, emerge come esista un forte legame tra lo studio a casa e lo status socio – economico: il maggior tempo trascorso nello svolgimento dei compiti a casa è correlato con migliori risultati scolastici.
I ragazzi meno fortunati, infatti, dispongono di minori opportunità per lo svolgimento dei compiti: spesso non hanno un posto adeguato dove poterli fare, non possono contare sul controllo, sull’aiuto e il supporto dei genitori, non possiedono spesso gli strumenti che li possono agevolare.  
In sostanza, conclude il rapporto OCSE, i compiti a casa costituiscono un’opportunità per l’apprendimento ma possono rinforzare l’effetto delle disparità socio – economiche nei risultati degli alunni.
Le scuole e gli insegnanti dovrebbero, perciò, trovare il modo di incoraggiare e supportare gli studenti svantaggiati nell’esecuzione dei compiti a casa aiutando, ad esempio, i genitori a motivare i figli a svolgere i compiti o fornendo strutture nelle quali i ragazzi che non dispongono di un posto adeguato a casa potrebbero studiare serenamente di pomeriggio.
Il dibattito italiano su questo tema è piuttosto carente, a differenza di quello che avviene nei paesi anglosassoni e in Francia in cui, invece, sono abbondanti gli studi e le ricerche.
Nel nostro paese la discussione sembra essere ancorata prevalentemente a prese di posizione ideologiche pro o contro i compiti a casa: un esempio può essere costituito dal testo di Maurizio Parodi Basta compiti, non è cosi che s’impara, che “senza se e senza ma” rifiuta pregiudizialmente il loro utilizzo come valido strumento didattico.
In realtà la ricerca ha dimostrato come dei compiti a casa non si possa fare a meno. La questione, piuttosto, riguarda la loro qualità. Una sintesi critica dei risultati della ricerca in materia, che si può leggere nell’articolo di Nicole Schrat Carr, Increasing the Effectiveness of Homework for All Learners in the Inclusive Classroom, evidenzia in maniera molto chiara come compiti a casa di qualità producano effetti importanti sui risultati di apprendimento.
La scuola dovrebbe pertanto, con realismo e buon senso, farsi carico della problematica cercando di affrontare i numerosi aspetti che essa contiene.
È quello cha abbiamo cercato di fare nel nostro istituto comprensivo con le “Linee guida sui compiti a casa degli alunni”. Credo che la loro lettura possa essere molto interessante. Potete leggerle all’interno del nostro POF, a pag. 147.

lunedì 8 dicembre 2014

Occupazioni

Ha fatto molto discutere l’intervento che il sottosegretario all’Istruzione, Davide Faraone, ha dedicato al tema delle occupazioni delle scuole da parte degli studenti della secondaria.
In particolare i commenti negativi si sono concentrati su alcune frasi dal contenuto, in effetti, discutibile.
Per il sottosegretario, infatti, le occupazioni sono esperienze “in alcuni casi più formative di ore passate in classeio ho maturato la mia voglia di fare politica, proprio durante un’occupazione e chissà quanti hanno cominciato a fare politica, o vita associativa, o hanno scoperto la passione civile, proprio partendo da questa esperienza. O ancora, quanti sono diventati leader in un’azienda, dopo essere stati leader durante un’occupazione studentesca. Anche in quei contesti si seleziona la classe dirigente”.
Io non vorrei soffermarmi tanto su queste singole affermazioni quanto, piuttosto su un aspetto di carattere generale che emerge dall’articolo del sottosegretario e che merita a mio parere di essere commentato con un po’ più di attenzione.
Si tratta di quell’approccio che potrebbe essere definito “giovanilistico” che pervade tutto il discorso di Faraone. Si ha l’impressione di avere a che fare con una persona matura che parla a dei ragazzi mettendosi sul loro stesso piano, ricordando, con acuta nostalgia, quando anche lui aveva la stessa età e faceva le loro stesse cose, le loro stesse occupazioni. Io non credo che sia l’approccio corretto che un adulto – specie se svolge un importante ruolo istituzionale – deve tenere nel momento in cui si rivolge a dei ragazzi. Dovrebbe conferire alle cose che dice una dimensione educativa. Ma il rapporto educativo si fonda principalmente su di una precisa differenza di ruoli che qui, invece, sembra mancare, interamente assorbita da una retorica dell’ascolto. Ascolto, ascolto, ascolto. È questo il metodo che ci siamo dati – ribadisce non a caso alla conclusione del suo ragionamento il sottosegretario.
Mi si conceda una lunga citazione in proposito, tratta da un libro che considero uno dei più importanti usciti negli ultimi anni sui temi dell’educazione e purtroppo non adeguatamente conosciuto. Si tratta dell’opera di Duccio Demetrio, L’educazione non è finita.
L’educazione è stinta e malaticcia. Perché con battage mediaticamente iterati è andata dilagando una concezione buona (una buona pratica, si suol dire) dell’educazione come ascolto devoto di chi sovente non ha nessuna voglia di essere ascoltato e tanto meno di ascoltare. Viene attuata, con qualche successo indubbio, soprattutto da parte di adulti desiderosi di imparare i malesseri giovanili ed infantili. Vuoi per professione, vuoi per gli iterati fallimenti in famiglia nel venire a capo di bugie, silenzi, intolleranze.
È nata una retorica dell’empatia, del disagio di crescere e dei “bisogni di cura” […] che ai grandi sfuggono quando non si siedano a prestare appunto ascolto a un adolescente che non vede l’ora di chiudere il colloquio al più presto. Senza irridere all’importanza di sapere che cosa il destinatario dell’ascolto desideri, pensi, stia escogitando, è bene non dimenticare che educare è innanzitutto parlarsi, litigare, contrapporsi o, per lo meno, disponibilità ad ascoltarsi a turno e ad armi casalinghe alla pari. È soprattutto affermare, convincere, spiegare, raccontare, ammettere i propri errori. Sono invece gli infanti e i giovinetti che dovrebbero imparare ad ascoltare di più.
Ma gli adulti che si siano dati alla macchia non hanno più tempo né voglia di parlare.
È più comodo e meno frustrante ascoltare. Perché così si mettono l’animo in pace, con rari sensi di colpa.
[…] Siamo noi adulti, e a voce spiegata, suadente, convincente, alta, urlando se necessario pur di far risuonare un’idea autorevole e perentoria, ad avere tale responsabilità. Purché il locutore abbia saputo meritarsi un rispetto dovuto, conquistarsi un prestigio attraverso atti e gesti, ma sempre parlando, sempre raccontando. Soltanto in tal modo le regole educative – per una convivenza arricchita di pensiero, di risposte sincere – possono trovare i loro contorni, i confini da sfidare, da rilanciare per riscriverne insieme di nuovi. (pagg. 68 – 69).
Due ultime, sintetiche annotazioni all’articolo del sottosegretario.
La prima. Naturalmente, la democrazia funziona se ad un certo punto si smette di discutere e si decide. Anche questa è una prerogativa alla quale il governo Renzi non è mai venuto meno: se non si decide si è irrilevanti e inutili e non ce lo possiamo permettere. Così si conclude l’articolo. Detto in altri termini: discutiamo pure ma alla fine le decisioni le prendiamo solamente noi…

La seconda. Occupare una scuola è un’atto illegale. Questo il sottosegretario non lo dice mai. Ma non sarebbe dovuta essere questa la premessa a tutto il discorso da parte di un rappresentante delle istituzioni?

domenica 30 novembre 2014

Chi paga i conti della crisi?


Un pomeriggio molto interessante trascorso ad assistere alla tavola rotonda di presentazione e commento del Rapporto Immigrazione Caritas e Migrantes 2013.
Molti gli interventi interessanti tra cui quello del nostro vescovo, Bruno Forte, del direttore generale della Fondazione Migrantes della Cei, Giancarlo Perego e del  parlamentare Khalid Chaouki.
Un aspetto mi ha particolarmente colpito e concerne in particolare il rapporto tra la crisi e diritti delle persone. La crisi, in effetti, non colpisce solamente la condizione economica delle persone, diminuendo i loro redditi, ma intacca profondamente anche quelli che sono i loro diritti: al lavoro, alla salute, alla casa, ad un salario equo, a ricongiungersi con i loro cari, a condizioni di vita e di lavoro dignitose. La crisi favorisce lo sviluppo di quei comportamenti che conducono alla negazione parziale o totale di quell’insieme di diritti che tutelano la condizione delle persone in ogni aspetto della propria vita. Ciò vale soprattutto per le fasce più deboli tra le quali, naturalmente, sono da collocarsi i migranti. C’è il rischio di uscire dalla crisi con una società non solo più povera, ma anche e soprattutto più ingiusta, meno solidale.
Non si può non notare come sia soprattutto la Chiesa Cattolica in Italia a segnalare questo pericolo e come si impegni quotidianamente nella battaglia per la difesa dei diritti delle persone. Ben diverso, al momento, appare invece l’operato della politica.


Non è un caso che un’analoga preoccupazione emerga dal rapporto dell’Unicef: Figli della recessione. L'impatto della crisi economica sul benessere dei bambini nei paesi ricchi.
Anche in questo rapporto emerge come la recessione abbia peggiorato la condizione di vita di un gran numero di minori. Se da un lato il benessere delle famiglie è diminuito a causa della perdita del posto di lavoro o della sottoccupazione il rapporto sottolinea principalmente come, d’altro canto, la crisi del debito pubblico abbia costretto i governi a modificare le proprie politiche di welfare con conseguente indebolimento dei diritti dei bambini in ambiti fondamentali, come quelli della sanità, dell'istruzione e della nutrizione.  Meno reddito, meno tutela, maggiori privazioni materiali. Ma soprattutto l’Unicef evidenzia come “i bambini più poveri e maggiormente vulnerabili hanno sofferto in modo sproporzionato. In alcuni paesi in cui la povertà infantile complessiva è diminuita, si è assistito all'aumento della diseguaglianza, un dato che sembrerebbe indicare che le riforme fiscali e i trasferimenti sociali destinati ad aiutare i bambini più poveri si sono rivelati parzialmente inefficaci”. La responsabilità della politica è stata perciò rilevante. “ Ma – si chiede infatti il rapporto - se in precedenza si fossero implementate politiche di tutela più solide e se queste fossero state rafforzate durante la recessione, quanti bambini in più sarebbe stato possibile aiutare?”. Nel rapporto Unicef viene fatta una grave affermazione: un’intera generazione è stata messa da parte a causa delle politiche con le quali i governi hanno affrontato la recessione. “Si tratta di una scoraggiante inversione di rotta per quella che era stata una tendenza positiva in termini di consolidamento dei diritti dei giovani. I progressi compiuti nel campo dell'istruzione, della salute e della tutela sociale negli ultimi 50 anni sono ora a rischio”. Eppure sarebbe interesse di tutti aiutare i bambini perché essi costituiscono il nostro futuro e i danni che si compiono adesso avranno un effetto a lungo termine. Vale la pena esaminare perciò con un po’ di attenzione i dati del rapporto riferiti al nostro paese che indicano – in modo purtroppo inequivocabile – come ci collochiamo agli ultimi posti nella tutela dell’infanzia. La mancanza di una vera politica in Italia sull’infanzia non fa ben sperare per il futuro.


mercoledì 26 novembre 2014

La scuola e la giornata contro la violenza sulle donne


Si è celebrata ieri la giornata contro la violenza sulle donne. Si è trattato di un evento importante, voluto dall’ONU con la risoluzione numero 54/134 del 17 dicembre 1999, che forse avrebbe meritato un’attenzione maggiore da parte del mondo della scuola.
Vorrei proporre a questo proposito qualche riflessione partendo da quanto detto dal presidente della Camera Laura Boldrini: “Il fenomeno della violenza di genere ha un carattere strutturale e culturale, affonda le radici su antichi pregiudizi e stereotipi. In mancanza di un cambiamento nel nostro modo di parlare e guardare non vi sarà un reale cambiamento, finché non si comprenderà che la sottorappresentazione e la rappresentazione offensiva della donna riguarda in primo luogo gli uomini. Vanno educati al rispetto, occorre coinvolgerli o non ci saranno progressi”. E in effetti anche le più recenti ricerche sottolineano quanto pesino sul fenomeno le convinzioni distorte radicate nella mentalità dei maschi. Per sconfiggere la violenza sulle donne, perciò, non sono sufficienti le leggi per quanto severe ed efficaci esse possano essere. Occorre innestare una vera e propria “rivoluzione culturale” che modifichi nel profondo sia il permanere di un’immagine stereotipata della figura femminile, ancora incentrata su logiche afferenti l’accudimento (matrimonio, famiglia, casa, figli), in particolare tra gli uomini, sia  l’implicito «codice di comportamento» che regola il rapporto tra i sessi, nel quale permane ancora largamente diffuso un retaggio antico, in cui il potere è fortemente sbilanciato in favore dell’uomo. 
Credo che la scuola possa svolgere un ruolo molto importante in tutto ciò. Ma si tratta di un compito per nulla semplice.
Sono rimasto molto turbato dai risultati di un’indagine svolta sui ragazzi dal portale Skuola.net: 1 studente su 5 ha alzato le mani nei confronti della sua ragazza e 1 studentessa su 2 afferma di essere disposta a perdonare uno schiaffo del suo ragazzo. Questa stessa indagine ci consegna altri dati allarmanti: 1 studente su 3 racconta di essere a conoscenza di episodi di violenza sulle ragazze, e il 20% nemmeno si scandalizza troppo; il 35% di loro giustifica il gesto con il classico e scontato “se l’era proprio cercata”, mentre il restante 65% dice tranquillamente che uno schiaffo ogni tanto alla propria fidanzata “ci sta”. Sembra proprio che anche tra le nuove generazioni ci sia ancora tanto da lavorare.
Il vicepresidente del Senato Valeria Fedeli ha presentato un Disegno di legge per introdurre l’educazione di genere all’interno della scuola. Iniziativa senza dubbio lodevole nelle intenzioni e che risponde a delle precise indicazioni contenute nell’art. 14 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica.
Credo che l’iniziativa meriti qualche riflessione più attenta per evitare che non si trasformi nell’ennesima buona intenzione con scarse o nulle ricadute effettive.
Cerco di spiegarmi meglio. Nell’intervista che la senatrice ha concesso a Repubblica afferma che “alle elementari i libri parlano di bambine che cucinano o cullano le bambole e maschietti che giocano con le costruzioni, eppure in orbita ora mi pare ci sia una donna. Il problema è che in questo modo li si inchioda a stereotipi non lasciandoli liberi di seguire altre inclinazioni. Si dice che le bambine devono essere brave, ubbidienti e che i bambini non devono piangere ma vincere" e che "imparano una grammatica dei sentimenti sbagliata che si chiude attorno a loro come una gabbia, perché esclude la complessità di ogni essere. È un errore dire che piangere è da femmine ed essere forti è da maschi, tutti siamo forti e fragili allo stesso tempo e una lacrima non esclude tenacia, anzi".  Io non credo che la rappresentazione che emerge della Scuola Primaria da queste affermazioni sia realistica e corrisponda a quanto avviene quotidianamente nelle nostre classi. Io constato, piuttosto, una grande cura ed attenzione da parte dei docenti (quasi tutte donne – occorre ricordarlo) a presentare in maniera diversa i rapporti tra i sessi e ad educare al rispetto e al rifiuto dei pregiudizi. Forse l’azione dovrebbe essere più incisiva nei gradi successivi di scuola, come ci mostra l’indagine di Skuola.net.
Ma la mia preoccupazione maggiore è che l’iniziativa si limiti alla pura e semplice introduzione dell’ ”ora della differenza di genere” all’interno del curricolo, alla sola presentazione di contenuti che poco possono incidere su convinzioni profonde radicate nella cultura delle famiglie. Le numerose buone pratiche ci insegnano che non si tratta di fornire qualche contenuto in più quanto, piuttosto, di intervenire sull’educazione all’affettività, sulle relazioni, su clima della classe. E su tutto questo possediamo un grande patrimonio di esperienze che occorrere valorizzare e diffondere.
È indubbio che la scuola debba svolgere un suo compito per sconfiggere questa profonda ferita nel tessuto dei rapporti tra i sessi. Si tratta di un compito cruciale soprattutto se si tiene conto che la scuola rappresenta l’ambiente di socializzazione primario e di confronto tra i sessi per i bambini e i ragazzi. La scuola si impegna già e si impegnerà sicuramente anche nel futuro in questa battaglia. Credo però che sarebbe sbagliato far carico ai soli docenti di questo compito come, purtroppo, spesso è accaduto in passato quando sono partite campagne di sensibilizzazione su tanti altri temi importanti. La battaglia della scuola sarà sicuramente persa se non verrà accompagnata da iniziative che coinvolgano anche le famiglie, il mondo dello spettacolo (quante vallette ancora ci sono nei programmi televisivi!), lo sport, la pubblicità, ecc.
Ma potremo davvero contare sull’impegno di tutti in questa battaglia di civiltà?

venerdì 21 novembre 2014

L’istinto di narrare


Ho appena terminato di leggere un libro che consiglio a tutti.
La tesi di fondo del libro è che l’uomo è un animale che ama narrare perché ha un istinto profondo che lo spinge a creare e raccontare storie; questo istinto costituisce una delle principali funzioni che ha guidato l’ evoluzione del genere umano. Attraverso la costruzione di storie gli uomini costruiscono il significato di ciò che accade loro intorno, spiegano e interpretano la propria e l’altrui vita e condividono con gli altri queste loro interpretazioni.
Tutti noi sappiamo quanto i bambini amano costruire storie nei propri giochi di finzione e quanto amano farsi narrare le favole dai genitori attraverso il racconto o la lettura ad alta voce. Questa passione per le narrazioni non scompare con l’infanzia ma rimane anche in età adulta manifestandosi in altre forme: nella lettura di romanzi, nella visione di film e di fiction televisive, nelle sceneggiature dei reality show, nella pubblicità, nella comunicazione dei politici, nei videogiochi, nelle canzoni e nella musica che ascoltiamo. Un intero capitolo del libro è dedicato ai sogni che sono tutti, in realtà, delle storie che il nostro cervello costruisce nel corso del sonno. Creiamo storie, cioè, anche quando dormiamo. Insomma, secondo Gottschall, Le storie sono il collante della vita sociale umana, definiscono i gruppi e li tengono saldamente uniti. Viviamo nell’Isola che non c’è perché non possiamo farne a meno. L’Isola che non c’è è la nostra natura…. Siamo l’animale che racconta storie … Le storie sono per l’uomo ciò che è l’acqua per i pesci”.
È indubbio, secondo Gottschall, che la passione per le storie abbia svolto un ruolo importante nella nostra storia evolutiva perché altrimenti la logica utilitaristica della selezione l’avrebbe eliminata non potendo consentire la grande quantità di tempo ed energia che dedichiamo nella nostra vita al narrare.
Ma allora da dove nasce il piacere di narrare? E a che cosa ci è servito? Gottschall ci conduce, attraverso una lunga camminata che attraversa i territori della psicologia, della letteratura, dell’antropologia, delle neuroscienze, ad individuare le funzioni della narrazione: organizzare e trasmettere informazioni, rafforzare la coesione dei gruppi attraverso la condivisione di valori comuni. Ma nel compiere questo percorso ci fa capire come dietro ogni storia avvincente c’è un ostacolo: una situazione difficile, un problema intricato, una condizione che genera inquietudine, sofferenza o paura.
“Esistono strutture di base comuni a tutte le storie di tutto il mondo. Già questo è davvero incredibile: se chiedi a una persona di buona cultura se pensa se tutte le storie si somiglino o meno, probabilmente ti risponderà di no, che è impossibile generalizzare, che sono tutte così diverse, le storie. La verità però è che le storie sono molto prevedibili, hanno tutte la stessa struttura di base. Le storie hanno sempre un protagonista che deve superare un ostacolo, che vive una situazione difficile, che ha un problema nella sua vita. E che prova a risolverlo. Le storie sono sempre la narrazione di una soluzione”.
Di qui l’idea di fondo del libro: “La finzione, espressa con qualunque mezzo narrativo, è un’antica e potente tecnologia di realtà virtuale che simula i grandi dilemmi della vita umana”: ed è vantaggiosa perché la vita, specialmente la vita sociale, è profondamente complessa e le poste in gioco sono alte. “La finzione consente al nostro cervello di fare pratica con le reazioni a quei generi di sfide che sono, e sono sempre state, le più cruciali per il nostro successo come specie”.  Le narrazioni svolgerebbero la stessa funzione che i simulatori di volo svolgono per l’addestramento dei piloti: sperimentare le situazioni complesse da affrontare poi nella vita di tutti i giorni. Si tratta quindi di una potente macchina virtuale che simula i grandi dilemmi della vita umana e ci attrezza ad affrontarli, rendendoci così più adatti alla vita sociale.
Gottschall non è uno scienziato, ma un docente universitario di letteratura che però ha collaborato spesso con ricercatori nei campi della biologia, delle neuroscienze, della psicologia. Questa sua molteplicità di interessi rende il suo lavoro un testo avvincente la cui lettura costituisce un’esperienza molto gradevole per lo stile con cui è scritto, stile tipico della grande divulgazione anglosassone.
Le tematiche del libro sono tutte molto interessanti e meritano sicuramente di essere approfondite da parte di chi, come il sottoscritto, si occupa di scuola e di educazione. Accenno ad un paio di sentieri da percorrere segnalando dei punti di partenza.
Il primo sentiero può partire dall’opera di Jerome Bruner: La fabbrica delle storie e ci conduce a riflettere su come le narrazioni ci aiutano a costruire il significato delle nostre esperienze e sulla funzione del “sapere narrativo” e di quello “paradigmatico”.
Il secondo sentiero, che propongo di imboccare partendo da una conversazione radiofonica con Carlo Rovelli, percorre invece i territori dei rapporti tra scienza e narrazione.
Buona passeggiata a voi tutti! 

lunedì 17 novembre 2014

I ragazzi di Ayotzinapa



Le foto degli studenti scomparsi, durante una manifestazione a Città del Messico,
 l’8 ottobre 2014.
 (Edgard Garrido, Reuters/Contrasto)

Credo che siamo tutti a conoscenza di cosa è accaduto nelle settimane scorse nel Messico, nello stato di Guerrero.
La polizia ha aperto il fuoco nel corso di una manifestazione di studenti nella città di Iguala; 6 studenti sono morti, 2 feriti e 43 (di età compresa tra i 18 e i 21 anni) sono stati arrestati e consegnati ad una banda di narcotrafficanti che li ha uccisi abbandonando poi i cadaveri in una discarica.
Ma cosa avevano fatto questi ragazzi per andare incontro ad una fine così terribile? Pare che stessero organizzando una contestazione durante un comizio del sindaco della città di Iguala. Guerrero è uno degli stati più violenti del paese. In realtà, se il territorio è ricco di risorse naturali (specie minerarie) e presenta numerose attrazioni turistiche, la popolazione vive in uno stato di estrema povertà. In Guerrero si registra uno dei più alti tassi di analfabetismo, di morte infantile, di denutrizione. Si tratta di uno stato devastato dalla violenza, dalle bande del crimine organizzato dei narcotrafficanti. Il sindaco della città di Iguala e sua moglie sembra siano fortemente collusi con il cartello dei narcotrafficanti dei “Guerreros Unidos”.
Purtroppo non è la prima volta che si registrano nel Messico episodi del genere: in un rapporto pubblicato nel giugno 2013 Amnesty International ha calcolato che tra il 2006 e il 2012 sono scomparse 26.000 persone delle quali non si sa più nulla. Questa volta, però, l’ondata di indignazione nazionale e internazionale è stata molto forte. Numerose sono state le manifestazioni di protesta nel paese e anche la conferenza episcopale messicana ha fatto sentire la propria voce ("Basta, non vogliamo più violenza né morti, non vogliamo più desaparecidos né dolore e vergogna) rieccheggiando l’appello del Papa che ha ricordato di essere "particolarmente vicino in questo momento doloroso della sparizione dei ragazzi messicani che ora sappiamo assassinati".
Ma perché parlare di questo fatto in questo blog che si occupa di scuola ed educazione? Il motivo è molto semplice: i ragazzi uccisi studiavano per diventare insegnanti. Frequentavano infatti la scuola normale rurale di Ayotzinapa, istituto destinato alla formazione dei futuri maestri che poi sono inviati ad insegnare nelle comunità montane. Da sempre è conosciuta per formare insegnanti attivi politicamente, impegnati in proteste e manifestazioni: un maestro rurale, formatosi ad Ayotzinapa, era pure Lucio Cabañas. I ragazzi della scuola rurale erano convinti, infatti, che la cultura rappresenti, per le popolazioni più povere ed emarginate dello stato di Guerrero uno strumento fondamentale di promozione sociale. Ed è questo che volevano testimoniare con la propria manifestazione a Iguala. Ma sono stati messi a tacere brutalmente perché, evidentemente, chi li ha eliminati è pienamente consapevole che l’ignoranza è lo strumento più potente per mantenere l’ingiustizia, la sopraffazione e la violenza.

I ragazzi di Ayotzinapa ci hanno lasciato in eredità un messaggio molto importante battendosi, a rischio della propria vita, per difendere la funzione sociale della scuola. Dovranno rimanere perciò sempre nel cuore di chi crede nel lavoro dell’educatore.

venerdì 14 novembre 2014

“La buona scuola” e il personale ATA invisibile



Anche l’istituto comprensivo n.4 ha organizzato un incontro - dibattito su “La buona scuola”.
Hanno partecipato docenti, genitori, rappresentanti delle associazioni e della società civile del territorio.
È stata una bellissima serata nel corso della quale abbiamo avuto modo di discutere in maniera approfondita non solo e non tanto sul documento governativo quanto piuttosto sull’educazione, sul ruolo che la scuola deve svolgere nella società, sui valori che deve trasmettere.
Pubblicheremo sul sito della scuola gli interventi, tutti ricchi di spunti interessanti frutto di uno studio attento e approfondito del documento e delle tematiche in esso trattate e frutto, soprattutto, di un’intensa passione per la scuola e per la sua funzione educativa.
Sono molte le cose che, è emerso nel dibattito, mancano nel documento che, del resto, non poteva e non voleva essere esaustivo. 
Ce n’è una della quale mi preme parlare perché poco segnalata da altri. Si tratta della questione del personale ATA. La sigla ATA, (Ausiliario, Tecnico, Amministrativo) individua quello che, una volta, veniva definito invece personale “non docente”. Si tratta di quei lavoratori che svolgono un ruolo fondamentale, indispensabile a tenere aperte e funzionanti le nostre scuole: i servizi amministrativi di segreteria, la vigilanza, la pulizia, l’accoglienza e l’assistenza dei bambini e delle bambine più piccoli o disabili, la piccola manutenzione degli edifici, ecc.
Si tratta di un lavoro spesso oscuro, poco appariscente, qualche volta per nulla gratificante. Ma è un lavoro preziosissimo che oggi, purtroppo, a causa dei rilevanti tagli di personale e della maggiore complessità delle scuole autonome, si svolge in condizioni sempre più difficili.
È oggi molto più impegnativo, infatti, tenere pulita una scuola, specie quando questa è frequentata da bambini piccoli, quando è a tempo pieno, quando vi si svolgono numerose attività laboratoriali e progettuali. E lo si deve fare con organici ridotti a quasi la metà rispetto a quelli di qualche anno fa.
Con l’introduzione dell’autonomia delle scuole, poi, il lavoro degli uffici di segreteria è radicalmente cambiato dal momento che si son dovute assumere funzioni diverse e sempre più complesse, con responsabilità maggiori che richiedono competenze professionali molto specifiche e di alto livello. L’ufficio amministrativo di una scuola si occupa, infatti, di un po’ di tutto: contratti di lavoro per il personale, acquisti di beni e servizi, gestione di pratiche pensionistiche e di contenzioso, bilanci consuntivi e di previsione, iscrizioni e anagrafe degli alunni e del personale, ecc. Il tutto, si badi bene, facendo i conti con una normativa il più delle volte non pensata né per la pubblica amministrazione né per la scuola e che rende complicato e difficile anche svolgere le cose più semplici ed elementari.
Penso sia superfluo menzionare il fatto che le retribuzioni di questo personale (come del resto quelle di tutto il personale della scuola) sono del tutto inadeguate e molto inferiori a quelle dei corrispondenti profili del settore privato e, peggio ancora, delle altre pubbliche amministrazioni.
Non si può che essere grati al personale ATA se riesce, in queste difficili condizioni, a svolgere il proprio lavoro con grande impegno e con grandissima dignità.
Spiace, perciò, che in un documento di 136 pagine venga nominato di sfuggita solo 2 (due!) volte. Il personale ATA sembra essere invisibile agli occhi di chi ha scritto “La buona scuola”.

 Ma per chi come me si trova “in prima linea” nella quotidiana battaglia per l’educazione e la formazione gli ATA sono visibilissimi e non saprei, davvero, da dove possa venire l’idea che una buona scuola possa fare a meno del loro impegno e del loro lavoro per il quale, credo, non smetterò mai di ringraziarli.

mercoledì 12 novembre 2014

Fahrenheit e la buona scuola

La trasmissione di radio 3 Fahrenheit si occupa molto di scuola. In altri post ho parlato di alcune puntate a mio parere interessanti sui temi dell’educazione. Un’intera sezione è dedicata alla scuola (FahreScuola).
Non potevano perciò mancare delle puntate sul documento “La buona scuola”. Vorrei segnalare quella del giorno 10 perché ritengo che abbia fornito molti spunti di riflessione non banali.
I partecipanti alla discussione erano Marco Rossi Doria (docente di scuola primaria ed ex sottosegretario all’istruzione con i ministri Profumo e Carozza), Alex Corlazzoli (anche lui docente di scuola primaria e giornalista) e Benedetto Vertecchi (docente di pedagogia di sperimentale e direttore del Dipartimento di Progettazione educativa e didattica dell’Università di Roma Tre).
Sintetizzo, tra i temi trattati, quelli che mi hanno maggiormente colpito.
1.      Il dibattito diffuso. Costituisce forse l’aspetto maggiormente positivo. Si sta tenendo una consultazione sul sistema scolastico del nostro paese e sul suo futuro che coinvolge un numero molto ampio non solo di addetti ai lavori ma anche di persone comunque interessate al mondo della scuola (genitori, studenti, amministratori, rappresentanti della società civile). Sicuramente qualcosa del genere non si era mai vista prima: le riforme erano sempre calate dall’alto con un limitatissimo livello di partecipazione. Corlazzoli ha fatto notare come in realtà il personale della scuola non partecipi in maniera così massiccia e diffusa alla discussione: molti docenti ed ATA il documento non lo hanno letto, non hanno compilato il questionario, non hanno preso parte agli incontri organizzati territorialmente.
2.      Il clima nuovo che pervade il documento. C’è una ripresa della passione per la scuola con la volontà, soprattutto, di sostenere l’innovazione. Ma anche in questo caso emerge una problematicità. Come in tante altre riforme che sono calate nel passato sul mondo della scuola si percepisce la tendenza a “ripartire da zero”, a dare poco credito cioè a tutto ciò che di positivo si è fatto in passato o si fa già nelle scuole. In realtà la scuola italiana, pur tra mille problemi e difficoltà, è già, in molti contesti e situazioni, una buona scuola che ha bisogno della valorizzazione e della generalizzazione delle migliori pratiche esistenti.
3.      Tutti e tre gli intervenuti hanno manifestato, in vari modi, la preoccupazione per una deriva economicistica che potrebbero comportare alcune scelte, soprattutto in tema di valutazione. C’è in effetti il pericolo di smarrire quelle finalità sociali ed educative a fondamento del sistema scolastico del nostro paese. Forse questo spiega alcune dimenticanze del documento: la dispersione scolastica (vera piaga irrisolta della scuola italiana), l’inclusione degli stranieri, la scuola dell’infanzia.
4.      L’ottica economicistica porta a credere che la concorrenza “faccia bene” alla scuola, innescando processi virtuosi di miglioramento attraverso il riconoscimento del merito. Ma è veramente così? Non c’è forse il pericolo di perdere la dimensione collegiale che costituisce l’essenza della comunità educativa? Cosa fa la differenza: il singolo insegnante o la comunità scuola?
5.      Un documento di ampio respiro deve avere una prospettiva di lungo periodo. Ma quali scenari possiamo immaginare per il futuro? Non c’è forse il rischio di rincorrere solo l’attualità investendo su risorse e percorsi formativi che domattina potrebbero risultare già vecchi e inutili? Benedetto Vertecchi insiste molto su questo aspetto sottolineando la necessità per la scuola di in curare soprattutto le abilità di base trasversali, quelle che ad esempio consentono di leggere, capire ed interpretare un testo di scritto, di organizzare il proprio pensiero e di comunicarlo in maniera comprensibile ed efficace, ecc.

domenica 9 novembre 2014

L'infanzia dimenticata ne "La buona scuola"

(foto da “Illuminiamo il futuro” – Save the Children Italia ONLUS)

Vorrei continuare a proporre qualche elemento di riflessione sui servizi educativi per la prima infanzia che, nel post precedente, ho rilevato praticamente assenti nel documento “La buona scuola”.
Consiglio, a questo proposito, la lettura di un interessante volume pubblicato dall’Associazione TreeLLLe e dalla Fondazione Rocca: “I numeri da cambiare. Scuola, università e ricerca. L’Italia nel confronto internazionale”, un capitolo del quale (pagg. 33-36) è dedicato ai servizi per l’infanzia (0-2 anni) e alla scuola dell’infanzia (3-5 anni). Attraverso l’analisi di dati quantitativi ricavati da varie fonti ufficiali – nazionali ed internazionali – vengono proposte alcune considerazioni.
1. “La letteratura scientifica (pedagogica, sociologica, economica) sottolinea sempre di più l’importanza di una esposizione precoce ad una socializzazione scolastica come condizione che favorisce il successivo percorso scolastico, principalmente perché espone ad una maggior stimolazione i bambini che provengono da ambienti culturalmente poveri. Inoltre, la dotazione di istituzioni rivolte all’infanzia permette ai genitori, segnatamente alle donne, di conciliare più facilmente la vita lavorativa con la cura dei figli”. Non è un caso, infatti, che la più importante pubblicazione internazionali sulle politiche per la prima infanzia (OCSE:Starting Strong II. Early childhood education and care) intitoli così i suoi primi capitoli: “The rise of the service economy and the influx of women into salaried employment”, “Reconciling work and family responsibilities in a manner more equitable for women” e “Early childhood education and care as a public good. Anche la Commissione europea ha manifestato nello sviluppo dei servizi per la prima infanzia un grande potenziale per la lotta all’esclusione sociale e per lo sviluppo; essa ha più volte sottolineato la necessità di garantire servizi di qualità e inclusivi con particolare attenzione all’accesso dei bambini in situazione di disagio socio-economico.
2. I servizi per la prima infanzia (0-2 anni), in Italia, sono considerati prevalentemente servizi a domanda individuale. L’utente deve cioè coprire una quota dei costi, quota che varia a seconda delle realtà territoriali dal 5.7% della Sicilia e al 26.4% della Regione Marche a fronte di una media nazionale pari al 18%. Ma sono molto diversificate sul territorio anche l’offerta e la copertura di tali servizi: si passa 28.1% della regione Emilia - Romagna al 2.7% della Calabria con una media nazionale del 12,7%. È facilmente riscontrabile perciò un forte squilibrio nelle opportunità educative offerte ai bambini nei diversi territori: le percentuali di Comuni in cui vi è un servizio per l’infanzia e quelle dei bambini accolti sono inferiori alla media nazionale in tutte le regioni del Sud e nelle Isole. Siamo ancora lontani dall’obiettivo stabilito a Barcellona (pag. 12 delle conclusioni del Consiglio Europeo del 15 e 16 maggio 2002) che fissa al 33% la percentuale dei bambini sotto i tre anni di età accolti in un servizio educativo: solo il 26% dei nostri bambini risulta inserito in servizi per l’infanzia pubblici e privati, o in una scuola dell’infanzia prima del compimento del terzo anno. Ci collochiamo così al 12° posto ben distanti da paesi come la Danimarca (74%), la Svezia (51%) e la Francia (44%).
3. Un altro importante documento – I diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza in Italia del gruppo CRC-  (documento che dovrebbe essere attentamente letto e studiato da chi si occupa di servizi per l’infanzia) riporta altri dati significativi: nel 2012, il 13,5% dei bambini sotto i tre anni ha usufruito dell’offerta comunale di servizi per l’infanzia (nidi 11,8%, servizi integrativi 1,6%). Si stima che a questa percentuale vada aggiunto un ulteriore 4% di bambini accolti in servizi privati non sovvenzionati da fondi pubblici. Rispetto all’anno precedente vi è stata una lieve flessione (-0,5%) attribuibile soprattutto alla diminuzione dei servizi integrativi per l’infanzia, mentre risulta immutata la percentuale nazionale dei bambini accolti nel nido. Non sono ancora disponibili i dati aggiornati all’anno educativo 2013 e a quello 2014, ma con preoccupazione si segnala da più parti come in molti Comuni si assista a un alto numero di rinunce alla frequenza del nido, da parte di famiglie non più in grado di pagare le rette o escluse dal servizio per il venir meno dell’occupazione della madre.
4. Diversa la situazione nella scuola dell’Infanzia: più del 94% dei bambini tra 3 e 6 anni ormai la frequenta. Ma tra gli utenti delle scuole dell’infanzia troviamo anche un numero elevato di bambini sotto i tre anni (pari al 5,1% degli alunni e al 15,7% della popolazione in età), mentre ben l’8,9% dei bambini di 5 anni è già inserito nella scuola primaria. La presenza di questi bambini anticipatari, accolti quindi in contesti non appropriati all’età, è particolarmente rilevante nelle regioni meridionali e nelle Isole (7,6% di bambini sotto i tre anni nella scuola dell’infanzia e 17,3% di bambini di cinque anni nella scuola primaria). È evidente come la scarsità di nidi e di altri servizi per l’infanzia orienti le famiglie verso un inserimento precoce nell’unico percorso educativo disponibile, con conseguenze che si riverberano su tutto il percorso dell’istruzione. La scuola dell’Infanzia viene così a sovraffollarsi e a caricarsi di compiti educativi che non le sono propri.
5. Ma non basta fermarsi ai soli dati quantitativi. Sempre il rapporto OCSE “Starting Strong II” sottolinea come la qualità rappresenti l’elemento decisivo per valutare i servizi realizzati dai vari paesi. Anche se c’è notevole disaccordo concettuale su cosa significhi qualità per l’OCSE, comunque, servizi carenti possono danneggiare più dell’assoluta mancanza di servizi. In particolare sembra che la dimensione custodialistica tenda ad affermarsi sempre più a scapito di quella educativa dal momento che richiede minori risorse economiche e professionali sia quantitative che qualitative.
6. Indubbiamente la crisi economica e i conseguenti tagli alle risorse degli Enti Locali ha comportato una forte riduzione degli investimenti nelle politiche sociali da parte degli stessi. Il documento del gruppo CRC sopra citato elenca minuziosamente i ritardi e le inadempienze delle politiche per i minori di questi ultimi anni. Ma soprattutto sottolinea come il nostro paese sconti l’assenza di un sistema di politiche per l’infanzia e l’adolescenza, inteso come quadro coerente di leggi, norme, procedure, imputazioni di ruoli e responsabilità, risorse.
7. Non credo che si sbagli se si afferma che la condizione dell’infanzia è peggiorata in conseguenza della crisi economica e delle politiche che sono state condotte per affrontarla negli ultimi anni. Ed è evidente che siano soprattutto i bambini delle famiglie maggiormente investite dalla crisi economica a pagare il prezzo di questo peggioramento: minori servizi, minori opportunità educative, minore equità, minore inclusione sociale. Si veda a questo proposito il rapporto di Save the Children, “Child poverty and social exclusion in Europe”. Non investire sull’infanzia vuol dire non investire sul futuro. La società italiana dei prossimi decenni sarà la conseguenza delle scelte politiche ed economiche di questi anni nei confronti dell’infanzia.
Spiace, perciò, che ne “La buona scuola” di questo non si parli, come se la formazione e l’educazione dei futuri cittadini iniziasse solo dopo i 6 anni.