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domenica 30 novembre 2014

Chi paga i conti della crisi?


Un pomeriggio molto interessante trascorso ad assistere alla tavola rotonda di presentazione e commento del Rapporto Immigrazione Caritas e Migrantes 2013.
Molti gli interventi interessanti tra cui quello del nostro vescovo, Bruno Forte, del direttore generale della Fondazione Migrantes della Cei, Giancarlo Perego e del  parlamentare Khalid Chaouki.
Un aspetto mi ha particolarmente colpito e concerne in particolare il rapporto tra la crisi e diritti delle persone. La crisi, in effetti, non colpisce solamente la condizione economica delle persone, diminuendo i loro redditi, ma intacca profondamente anche quelli che sono i loro diritti: al lavoro, alla salute, alla casa, ad un salario equo, a ricongiungersi con i loro cari, a condizioni di vita e di lavoro dignitose. La crisi favorisce lo sviluppo di quei comportamenti che conducono alla negazione parziale o totale di quell’insieme di diritti che tutelano la condizione delle persone in ogni aspetto della propria vita. Ciò vale soprattutto per le fasce più deboli tra le quali, naturalmente, sono da collocarsi i migranti. C’è il rischio di uscire dalla crisi con una società non solo più povera, ma anche e soprattutto più ingiusta, meno solidale.
Non si può non notare come sia soprattutto la Chiesa Cattolica in Italia a segnalare questo pericolo e come si impegni quotidianamente nella battaglia per la difesa dei diritti delle persone. Ben diverso, al momento, appare invece l’operato della politica.


Non è un caso che un’analoga preoccupazione emerga dal rapporto dell’Unicef: Figli della recessione. L'impatto della crisi economica sul benessere dei bambini nei paesi ricchi.
Anche in questo rapporto emerge come la recessione abbia peggiorato la condizione di vita di un gran numero di minori. Se da un lato il benessere delle famiglie è diminuito a causa della perdita del posto di lavoro o della sottoccupazione il rapporto sottolinea principalmente come, d’altro canto, la crisi del debito pubblico abbia costretto i governi a modificare le proprie politiche di welfare con conseguente indebolimento dei diritti dei bambini in ambiti fondamentali, come quelli della sanità, dell'istruzione e della nutrizione.  Meno reddito, meno tutela, maggiori privazioni materiali. Ma soprattutto l’Unicef evidenzia come “i bambini più poveri e maggiormente vulnerabili hanno sofferto in modo sproporzionato. In alcuni paesi in cui la povertà infantile complessiva è diminuita, si è assistito all'aumento della diseguaglianza, un dato che sembrerebbe indicare che le riforme fiscali e i trasferimenti sociali destinati ad aiutare i bambini più poveri si sono rivelati parzialmente inefficaci”. La responsabilità della politica è stata perciò rilevante. “ Ma – si chiede infatti il rapporto - se in precedenza si fossero implementate politiche di tutela più solide e se queste fossero state rafforzate durante la recessione, quanti bambini in più sarebbe stato possibile aiutare?”. Nel rapporto Unicef viene fatta una grave affermazione: un’intera generazione è stata messa da parte a causa delle politiche con le quali i governi hanno affrontato la recessione. “Si tratta di una scoraggiante inversione di rotta per quella che era stata una tendenza positiva in termini di consolidamento dei diritti dei giovani. I progressi compiuti nel campo dell'istruzione, della salute e della tutela sociale negli ultimi 50 anni sono ora a rischio”. Eppure sarebbe interesse di tutti aiutare i bambini perché essi costituiscono il nostro futuro e i danni che si compiono adesso avranno un effetto a lungo termine. Vale la pena esaminare perciò con un po’ di attenzione i dati del rapporto riferiti al nostro paese che indicano – in modo purtroppo inequivocabile – come ci collochiamo agli ultimi posti nella tutela dell’infanzia. La mancanza di una vera politica in Italia sull’infanzia non fa ben sperare per il futuro.


mercoledì 26 novembre 2014

La scuola e la giornata contro la violenza sulle donne


Si è celebrata ieri la giornata contro la violenza sulle donne. Si è trattato di un evento importante, voluto dall’ONU con la risoluzione numero 54/134 del 17 dicembre 1999, che forse avrebbe meritato un’attenzione maggiore da parte del mondo della scuola.
Vorrei proporre a questo proposito qualche riflessione partendo da quanto detto dal presidente della Camera Laura Boldrini: “Il fenomeno della violenza di genere ha un carattere strutturale e culturale, affonda le radici su antichi pregiudizi e stereotipi. In mancanza di un cambiamento nel nostro modo di parlare e guardare non vi sarà un reale cambiamento, finché non si comprenderà che la sottorappresentazione e la rappresentazione offensiva della donna riguarda in primo luogo gli uomini. Vanno educati al rispetto, occorre coinvolgerli o non ci saranno progressi”. E in effetti anche le più recenti ricerche sottolineano quanto pesino sul fenomeno le convinzioni distorte radicate nella mentalità dei maschi. Per sconfiggere la violenza sulle donne, perciò, non sono sufficienti le leggi per quanto severe ed efficaci esse possano essere. Occorre innestare una vera e propria “rivoluzione culturale” che modifichi nel profondo sia il permanere di un’immagine stereotipata della figura femminile, ancora incentrata su logiche afferenti l’accudimento (matrimonio, famiglia, casa, figli), in particolare tra gli uomini, sia  l’implicito «codice di comportamento» che regola il rapporto tra i sessi, nel quale permane ancora largamente diffuso un retaggio antico, in cui il potere è fortemente sbilanciato in favore dell’uomo. 
Credo che la scuola possa svolgere un ruolo molto importante in tutto ciò. Ma si tratta di un compito per nulla semplice.
Sono rimasto molto turbato dai risultati di un’indagine svolta sui ragazzi dal portale Skuola.net: 1 studente su 5 ha alzato le mani nei confronti della sua ragazza e 1 studentessa su 2 afferma di essere disposta a perdonare uno schiaffo del suo ragazzo. Questa stessa indagine ci consegna altri dati allarmanti: 1 studente su 3 racconta di essere a conoscenza di episodi di violenza sulle ragazze, e il 20% nemmeno si scandalizza troppo; il 35% di loro giustifica il gesto con il classico e scontato “se l’era proprio cercata”, mentre il restante 65% dice tranquillamente che uno schiaffo ogni tanto alla propria fidanzata “ci sta”. Sembra proprio che anche tra le nuove generazioni ci sia ancora tanto da lavorare.
Il vicepresidente del Senato Valeria Fedeli ha presentato un Disegno di legge per introdurre l’educazione di genere all’interno della scuola. Iniziativa senza dubbio lodevole nelle intenzioni e che risponde a delle precise indicazioni contenute nell’art. 14 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica.
Credo che l’iniziativa meriti qualche riflessione più attenta per evitare che non si trasformi nell’ennesima buona intenzione con scarse o nulle ricadute effettive.
Cerco di spiegarmi meglio. Nell’intervista che la senatrice ha concesso a Repubblica afferma che “alle elementari i libri parlano di bambine che cucinano o cullano le bambole e maschietti che giocano con le costruzioni, eppure in orbita ora mi pare ci sia una donna. Il problema è che in questo modo li si inchioda a stereotipi non lasciandoli liberi di seguire altre inclinazioni. Si dice che le bambine devono essere brave, ubbidienti e che i bambini non devono piangere ma vincere" e che "imparano una grammatica dei sentimenti sbagliata che si chiude attorno a loro come una gabbia, perché esclude la complessità di ogni essere. È un errore dire che piangere è da femmine ed essere forti è da maschi, tutti siamo forti e fragili allo stesso tempo e una lacrima non esclude tenacia, anzi".  Io non credo che la rappresentazione che emerge della Scuola Primaria da queste affermazioni sia realistica e corrisponda a quanto avviene quotidianamente nelle nostre classi. Io constato, piuttosto, una grande cura ed attenzione da parte dei docenti (quasi tutte donne – occorre ricordarlo) a presentare in maniera diversa i rapporti tra i sessi e ad educare al rispetto e al rifiuto dei pregiudizi. Forse l’azione dovrebbe essere più incisiva nei gradi successivi di scuola, come ci mostra l’indagine di Skuola.net.
Ma la mia preoccupazione maggiore è che l’iniziativa si limiti alla pura e semplice introduzione dell’ ”ora della differenza di genere” all’interno del curricolo, alla sola presentazione di contenuti che poco possono incidere su convinzioni profonde radicate nella cultura delle famiglie. Le numerose buone pratiche ci insegnano che non si tratta di fornire qualche contenuto in più quanto, piuttosto, di intervenire sull’educazione all’affettività, sulle relazioni, su clima della classe. E su tutto questo possediamo un grande patrimonio di esperienze che occorrere valorizzare e diffondere.
È indubbio che la scuola debba svolgere un suo compito per sconfiggere questa profonda ferita nel tessuto dei rapporti tra i sessi. Si tratta di un compito cruciale soprattutto se si tiene conto che la scuola rappresenta l’ambiente di socializzazione primario e di confronto tra i sessi per i bambini e i ragazzi. La scuola si impegna già e si impegnerà sicuramente anche nel futuro in questa battaglia. Credo però che sarebbe sbagliato far carico ai soli docenti di questo compito come, purtroppo, spesso è accaduto in passato quando sono partite campagne di sensibilizzazione su tanti altri temi importanti. La battaglia della scuola sarà sicuramente persa se non verrà accompagnata da iniziative che coinvolgano anche le famiglie, il mondo dello spettacolo (quante vallette ancora ci sono nei programmi televisivi!), lo sport, la pubblicità, ecc.
Ma potremo davvero contare sull’impegno di tutti in questa battaglia di civiltà?

venerdì 21 novembre 2014

L’istinto di narrare


Ho appena terminato di leggere un libro che consiglio a tutti.
La tesi di fondo del libro è che l’uomo è un animale che ama narrare perché ha un istinto profondo che lo spinge a creare e raccontare storie; questo istinto costituisce una delle principali funzioni che ha guidato l’ evoluzione del genere umano. Attraverso la costruzione di storie gli uomini costruiscono il significato di ciò che accade loro intorno, spiegano e interpretano la propria e l’altrui vita e condividono con gli altri queste loro interpretazioni.
Tutti noi sappiamo quanto i bambini amano costruire storie nei propri giochi di finzione e quanto amano farsi narrare le favole dai genitori attraverso il racconto o la lettura ad alta voce. Questa passione per le narrazioni non scompare con l’infanzia ma rimane anche in età adulta manifestandosi in altre forme: nella lettura di romanzi, nella visione di film e di fiction televisive, nelle sceneggiature dei reality show, nella pubblicità, nella comunicazione dei politici, nei videogiochi, nelle canzoni e nella musica che ascoltiamo. Un intero capitolo del libro è dedicato ai sogni che sono tutti, in realtà, delle storie che il nostro cervello costruisce nel corso del sonno. Creiamo storie, cioè, anche quando dormiamo. Insomma, secondo Gottschall, Le storie sono il collante della vita sociale umana, definiscono i gruppi e li tengono saldamente uniti. Viviamo nell’Isola che non c’è perché non possiamo farne a meno. L’Isola che non c’è è la nostra natura…. Siamo l’animale che racconta storie … Le storie sono per l’uomo ciò che è l’acqua per i pesci”.
È indubbio, secondo Gottschall, che la passione per le storie abbia svolto un ruolo importante nella nostra storia evolutiva perché altrimenti la logica utilitaristica della selezione l’avrebbe eliminata non potendo consentire la grande quantità di tempo ed energia che dedichiamo nella nostra vita al narrare.
Ma allora da dove nasce il piacere di narrare? E a che cosa ci è servito? Gottschall ci conduce, attraverso una lunga camminata che attraversa i territori della psicologia, della letteratura, dell’antropologia, delle neuroscienze, ad individuare le funzioni della narrazione: organizzare e trasmettere informazioni, rafforzare la coesione dei gruppi attraverso la condivisione di valori comuni. Ma nel compiere questo percorso ci fa capire come dietro ogni storia avvincente c’è un ostacolo: una situazione difficile, un problema intricato, una condizione che genera inquietudine, sofferenza o paura.
“Esistono strutture di base comuni a tutte le storie di tutto il mondo. Già questo è davvero incredibile: se chiedi a una persona di buona cultura se pensa se tutte le storie si somiglino o meno, probabilmente ti risponderà di no, che è impossibile generalizzare, che sono tutte così diverse, le storie. La verità però è che le storie sono molto prevedibili, hanno tutte la stessa struttura di base. Le storie hanno sempre un protagonista che deve superare un ostacolo, che vive una situazione difficile, che ha un problema nella sua vita. E che prova a risolverlo. Le storie sono sempre la narrazione di una soluzione”.
Di qui l’idea di fondo del libro: “La finzione, espressa con qualunque mezzo narrativo, è un’antica e potente tecnologia di realtà virtuale che simula i grandi dilemmi della vita umana”: ed è vantaggiosa perché la vita, specialmente la vita sociale, è profondamente complessa e le poste in gioco sono alte. “La finzione consente al nostro cervello di fare pratica con le reazioni a quei generi di sfide che sono, e sono sempre state, le più cruciali per il nostro successo come specie”.  Le narrazioni svolgerebbero la stessa funzione che i simulatori di volo svolgono per l’addestramento dei piloti: sperimentare le situazioni complesse da affrontare poi nella vita di tutti i giorni. Si tratta quindi di una potente macchina virtuale che simula i grandi dilemmi della vita umana e ci attrezza ad affrontarli, rendendoci così più adatti alla vita sociale.
Gottschall non è uno scienziato, ma un docente universitario di letteratura che però ha collaborato spesso con ricercatori nei campi della biologia, delle neuroscienze, della psicologia. Questa sua molteplicità di interessi rende il suo lavoro un testo avvincente la cui lettura costituisce un’esperienza molto gradevole per lo stile con cui è scritto, stile tipico della grande divulgazione anglosassone.
Le tematiche del libro sono tutte molto interessanti e meritano sicuramente di essere approfondite da parte di chi, come il sottoscritto, si occupa di scuola e di educazione. Accenno ad un paio di sentieri da percorrere segnalando dei punti di partenza.
Il primo sentiero può partire dall’opera di Jerome Bruner: La fabbrica delle storie e ci conduce a riflettere su come le narrazioni ci aiutano a costruire il significato delle nostre esperienze e sulla funzione del “sapere narrativo” e di quello “paradigmatico”.
Il secondo sentiero, che propongo di imboccare partendo da una conversazione radiofonica con Carlo Rovelli, percorre invece i territori dei rapporti tra scienza e narrazione.
Buona passeggiata a voi tutti! 

lunedì 17 novembre 2014

I ragazzi di Ayotzinapa



Le foto degli studenti scomparsi, durante una manifestazione a Città del Messico,
 l’8 ottobre 2014.
 (Edgard Garrido, Reuters/Contrasto)

Credo che siamo tutti a conoscenza di cosa è accaduto nelle settimane scorse nel Messico, nello stato di Guerrero.
La polizia ha aperto il fuoco nel corso di una manifestazione di studenti nella città di Iguala; 6 studenti sono morti, 2 feriti e 43 (di età compresa tra i 18 e i 21 anni) sono stati arrestati e consegnati ad una banda di narcotrafficanti che li ha uccisi abbandonando poi i cadaveri in una discarica.
Ma cosa avevano fatto questi ragazzi per andare incontro ad una fine così terribile? Pare che stessero organizzando una contestazione durante un comizio del sindaco della città di Iguala. Guerrero è uno degli stati più violenti del paese. In realtà, se il territorio è ricco di risorse naturali (specie minerarie) e presenta numerose attrazioni turistiche, la popolazione vive in uno stato di estrema povertà. In Guerrero si registra uno dei più alti tassi di analfabetismo, di morte infantile, di denutrizione. Si tratta di uno stato devastato dalla violenza, dalle bande del crimine organizzato dei narcotrafficanti. Il sindaco della città di Iguala e sua moglie sembra siano fortemente collusi con il cartello dei narcotrafficanti dei “Guerreros Unidos”.
Purtroppo non è la prima volta che si registrano nel Messico episodi del genere: in un rapporto pubblicato nel giugno 2013 Amnesty International ha calcolato che tra il 2006 e il 2012 sono scomparse 26.000 persone delle quali non si sa più nulla. Questa volta, però, l’ondata di indignazione nazionale e internazionale è stata molto forte. Numerose sono state le manifestazioni di protesta nel paese e anche la conferenza episcopale messicana ha fatto sentire la propria voce ("Basta, non vogliamo più violenza né morti, non vogliamo più desaparecidos né dolore e vergogna) rieccheggiando l’appello del Papa che ha ricordato di essere "particolarmente vicino in questo momento doloroso della sparizione dei ragazzi messicani che ora sappiamo assassinati".
Ma perché parlare di questo fatto in questo blog che si occupa di scuola ed educazione? Il motivo è molto semplice: i ragazzi uccisi studiavano per diventare insegnanti. Frequentavano infatti la scuola normale rurale di Ayotzinapa, istituto destinato alla formazione dei futuri maestri che poi sono inviati ad insegnare nelle comunità montane. Da sempre è conosciuta per formare insegnanti attivi politicamente, impegnati in proteste e manifestazioni: un maestro rurale, formatosi ad Ayotzinapa, era pure Lucio Cabañas. I ragazzi della scuola rurale erano convinti, infatti, che la cultura rappresenti, per le popolazioni più povere ed emarginate dello stato di Guerrero uno strumento fondamentale di promozione sociale. Ed è questo che volevano testimoniare con la propria manifestazione a Iguala. Ma sono stati messi a tacere brutalmente perché, evidentemente, chi li ha eliminati è pienamente consapevole che l’ignoranza è lo strumento più potente per mantenere l’ingiustizia, la sopraffazione e la violenza.

I ragazzi di Ayotzinapa ci hanno lasciato in eredità un messaggio molto importante battendosi, a rischio della propria vita, per difendere la funzione sociale della scuola. Dovranno rimanere perciò sempre nel cuore di chi crede nel lavoro dell’educatore.

venerdì 14 novembre 2014

“La buona scuola” e il personale ATA invisibile



Anche l’istituto comprensivo n.4 ha organizzato un incontro - dibattito su “La buona scuola”.
Hanno partecipato docenti, genitori, rappresentanti delle associazioni e della società civile del territorio.
È stata una bellissima serata nel corso della quale abbiamo avuto modo di discutere in maniera approfondita non solo e non tanto sul documento governativo quanto piuttosto sull’educazione, sul ruolo che la scuola deve svolgere nella società, sui valori che deve trasmettere.
Pubblicheremo sul sito della scuola gli interventi, tutti ricchi di spunti interessanti frutto di uno studio attento e approfondito del documento e delle tematiche in esso trattate e frutto, soprattutto, di un’intensa passione per la scuola e per la sua funzione educativa.
Sono molte le cose che, è emerso nel dibattito, mancano nel documento che, del resto, non poteva e non voleva essere esaustivo. 
Ce n’è una della quale mi preme parlare perché poco segnalata da altri. Si tratta della questione del personale ATA. La sigla ATA, (Ausiliario, Tecnico, Amministrativo) individua quello che, una volta, veniva definito invece personale “non docente”. Si tratta di quei lavoratori che svolgono un ruolo fondamentale, indispensabile a tenere aperte e funzionanti le nostre scuole: i servizi amministrativi di segreteria, la vigilanza, la pulizia, l’accoglienza e l’assistenza dei bambini e delle bambine più piccoli o disabili, la piccola manutenzione degli edifici, ecc.
Si tratta di un lavoro spesso oscuro, poco appariscente, qualche volta per nulla gratificante. Ma è un lavoro preziosissimo che oggi, purtroppo, a causa dei rilevanti tagli di personale e della maggiore complessità delle scuole autonome, si svolge in condizioni sempre più difficili.
È oggi molto più impegnativo, infatti, tenere pulita una scuola, specie quando questa è frequentata da bambini piccoli, quando è a tempo pieno, quando vi si svolgono numerose attività laboratoriali e progettuali. E lo si deve fare con organici ridotti a quasi la metà rispetto a quelli di qualche anno fa.
Con l’introduzione dell’autonomia delle scuole, poi, il lavoro degli uffici di segreteria è radicalmente cambiato dal momento che si son dovute assumere funzioni diverse e sempre più complesse, con responsabilità maggiori che richiedono competenze professionali molto specifiche e di alto livello. L’ufficio amministrativo di una scuola si occupa, infatti, di un po’ di tutto: contratti di lavoro per il personale, acquisti di beni e servizi, gestione di pratiche pensionistiche e di contenzioso, bilanci consuntivi e di previsione, iscrizioni e anagrafe degli alunni e del personale, ecc. Il tutto, si badi bene, facendo i conti con una normativa il più delle volte non pensata né per la pubblica amministrazione né per la scuola e che rende complicato e difficile anche svolgere le cose più semplici ed elementari.
Penso sia superfluo menzionare il fatto che le retribuzioni di questo personale (come del resto quelle di tutto il personale della scuola) sono del tutto inadeguate e molto inferiori a quelle dei corrispondenti profili del settore privato e, peggio ancora, delle altre pubbliche amministrazioni.
Non si può che essere grati al personale ATA se riesce, in queste difficili condizioni, a svolgere il proprio lavoro con grande impegno e con grandissima dignità.
Spiace, perciò, che in un documento di 136 pagine venga nominato di sfuggita solo 2 (due!) volte. Il personale ATA sembra essere invisibile agli occhi di chi ha scritto “La buona scuola”.

 Ma per chi come me si trova “in prima linea” nella quotidiana battaglia per l’educazione e la formazione gli ATA sono visibilissimi e non saprei, davvero, da dove possa venire l’idea che una buona scuola possa fare a meno del loro impegno e del loro lavoro per il quale, credo, non smetterò mai di ringraziarli.

mercoledì 12 novembre 2014

Fahrenheit e la buona scuola

La trasmissione di radio 3 Fahrenheit si occupa molto di scuola. In altri post ho parlato di alcune puntate a mio parere interessanti sui temi dell’educazione. Un’intera sezione è dedicata alla scuola (FahreScuola).
Non potevano perciò mancare delle puntate sul documento “La buona scuola”. Vorrei segnalare quella del giorno 10 perché ritengo che abbia fornito molti spunti di riflessione non banali.
I partecipanti alla discussione erano Marco Rossi Doria (docente di scuola primaria ed ex sottosegretario all’istruzione con i ministri Profumo e Carozza), Alex Corlazzoli (anche lui docente di scuola primaria e giornalista) e Benedetto Vertecchi (docente di pedagogia di sperimentale e direttore del Dipartimento di Progettazione educativa e didattica dell’Università di Roma Tre).
Sintetizzo, tra i temi trattati, quelli che mi hanno maggiormente colpito.
1.      Il dibattito diffuso. Costituisce forse l’aspetto maggiormente positivo. Si sta tenendo una consultazione sul sistema scolastico del nostro paese e sul suo futuro che coinvolge un numero molto ampio non solo di addetti ai lavori ma anche di persone comunque interessate al mondo della scuola (genitori, studenti, amministratori, rappresentanti della società civile). Sicuramente qualcosa del genere non si era mai vista prima: le riforme erano sempre calate dall’alto con un limitatissimo livello di partecipazione. Corlazzoli ha fatto notare come in realtà il personale della scuola non partecipi in maniera così massiccia e diffusa alla discussione: molti docenti ed ATA il documento non lo hanno letto, non hanno compilato il questionario, non hanno preso parte agli incontri organizzati territorialmente.
2.      Il clima nuovo che pervade il documento. C’è una ripresa della passione per la scuola con la volontà, soprattutto, di sostenere l’innovazione. Ma anche in questo caso emerge una problematicità. Come in tante altre riforme che sono calate nel passato sul mondo della scuola si percepisce la tendenza a “ripartire da zero”, a dare poco credito cioè a tutto ciò che di positivo si è fatto in passato o si fa già nelle scuole. In realtà la scuola italiana, pur tra mille problemi e difficoltà, è già, in molti contesti e situazioni, una buona scuola che ha bisogno della valorizzazione e della generalizzazione delle migliori pratiche esistenti.
3.      Tutti e tre gli intervenuti hanno manifestato, in vari modi, la preoccupazione per una deriva economicistica che potrebbero comportare alcune scelte, soprattutto in tema di valutazione. C’è in effetti il pericolo di smarrire quelle finalità sociali ed educative a fondamento del sistema scolastico del nostro paese. Forse questo spiega alcune dimenticanze del documento: la dispersione scolastica (vera piaga irrisolta della scuola italiana), l’inclusione degli stranieri, la scuola dell’infanzia.
4.      L’ottica economicistica porta a credere che la concorrenza “faccia bene” alla scuola, innescando processi virtuosi di miglioramento attraverso il riconoscimento del merito. Ma è veramente così? Non c’è forse il pericolo di perdere la dimensione collegiale che costituisce l’essenza della comunità educativa? Cosa fa la differenza: il singolo insegnante o la comunità scuola?
5.      Un documento di ampio respiro deve avere una prospettiva di lungo periodo. Ma quali scenari possiamo immaginare per il futuro? Non c’è forse il rischio di rincorrere solo l’attualità investendo su risorse e percorsi formativi che domattina potrebbero risultare già vecchi e inutili? Benedetto Vertecchi insiste molto su questo aspetto sottolineando la necessità per la scuola di in curare soprattutto le abilità di base trasversali, quelle che ad esempio consentono di leggere, capire ed interpretare un testo di scritto, di organizzare il proprio pensiero e di comunicarlo in maniera comprensibile ed efficace, ecc.

domenica 9 novembre 2014

L'infanzia dimenticata ne "La buona scuola"

(foto da “Illuminiamo il futuro” – Save the Children Italia ONLUS)

Vorrei continuare a proporre qualche elemento di riflessione sui servizi educativi per la prima infanzia che, nel post precedente, ho rilevato praticamente assenti nel documento “La buona scuola”.
Consiglio, a questo proposito, la lettura di un interessante volume pubblicato dall’Associazione TreeLLLe e dalla Fondazione Rocca: “I numeri da cambiare. Scuola, università e ricerca. L’Italia nel confronto internazionale”, un capitolo del quale (pagg. 33-36) è dedicato ai servizi per l’infanzia (0-2 anni) e alla scuola dell’infanzia (3-5 anni). Attraverso l’analisi di dati quantitativi ricavati da varie fonti ufficiali – nazionali ed internazionali – vengono proposte alcune considerazioni.
1. “La letteratura scientifica (pedagogica, sociologica, economica) sottolinea sempre di più l’importanza di una esposizione precoce ad una socializzazione scolastica come condizione che favorisce il successivo percorso scolastico, principalmente perché espone ad una maggior stimolazione i bambini che provengono da ambienti culturalmente poveri. Inoltre, la dotazione di istituzioni rivolte all’infanzia permette ai genitori, segnatamente alle donne, di conciliare più facilmente la vita lavorativa con la cura dei figli”. Non è un caso, infatti, che la più importante pubblicazione internazionali sulle politiche per la prima infanzia (OCSE:Starting Strong II. Early childhood education and care) intitoli così i suoi primi capitoli: “The rise of the service economy and the influx of women into salaried employment”, “Reconciling work and family responsibilities in a manner more equitable for women” e “Early childhood education and care as a public good. Anche la Commissione europea ha manifestato nello sviluppo dei servizi per la prima infanzia un grande potenziale per la lotta all’esclusione sociale e per lo sviluppo; essa ha più volte sottolineato la necessità di garantire servizi di qualità e inclusivi con particolare attenzione all’accesso dei bambini in situazione di disagio socio-economico.
2. I servizi per la prima infanzia (0-2 anni), in Italia, sono considerati prevalentemente servizi a domanda individuale. L’utente deve cioè coprire una quota dei costi, quota che varia a seconda delle realtà territoriali dal 5.7% della Sicilia e al 26.4% della Regione Marche a fronte di una media nazionale pari al 18%. Ma sono molto diversificate sul territorio anche l’offerta e la copertura di tali servizi: si passa 28.1% della regione Emilia - Romagna al 2.7% della Calabria con una media nazionale del 12,7%. È facilmente riscontrabile perciò un forte squilibrio nelle opportunità educative offerte ai bambini nei diversi territori: le percentuali di Comuni in cui vi è un servizio per l’infanzia e quelle dei bambini accolti sono inferiori alla media nazionale in tutte le regioni del Sud e nelle Isole. Siamo ancora lontani dall’obiettivo stabilito a Barcellona (pag. 12 delle conclusioni del Consiglio Europeo del 15 e 16 maggio 2002) che fissa al 33% la percentuale dei bambini sotto i tre anni di età accolti in un servizio educativo: solo il 26% dei nostri bambini risulta inserito in servizi per l’infanzia pubblici e privati, o in una scuola dell’infanzia prima del compimento del terzo anno. Ci collochiamo così al 12° posto ben distanti da paesi come la Danimarca (74%), la Svezia (51%) e la Francia (44%).
3. Un altro importante documento – I diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza in Italia del gruppo CRC-  (documento che dovrebbe essere attentamente letto e studiato da chi si occupa di servizi per l’infanzia) riporta altri dati significativi: nel 2012, il 13,5% dei bambini sotto i tre anni ha usufruito dell’offerta comunale di servizi per l’infanzia (nidi 11,8%, servizi integrativi 1,6%). Si stima che a questa percentuale vada aggiunto un ulteriore 4% di bambini accolti in servizi privati non sovvenzionati da fondi pubblici. Rispetto all’anno precedente vi è stata una lieve flessione (-0,5%) attribuibile soprattutto alla diminuzione dei servizi integrativi per l’infanzia, mentre risulta immutata la percentuale nazionale dei bambini accolti nel nido. Non sono ancora disponibili i dati aggiornati all’anno educativo 2013 e a quello 2014, ma con preoccupazione si segnala da più parti come in molti Comuni si assista a un alto numero di rinunce alla frequenza del nido, da parte di famiglie non più in grado di pagare le rette o escluse dal servizio per il venir meno dell’occupazione della madre.
4. Diversa la situazione nella scuola dell’Infanzia: più del 94% dei bambini tra 3 e 6 anni ormai la frequenta. Ma tra gli utenti delle scuole dell’infanzia troviamo anche un numero elevato di bambini sotto i tre anni (pari al 5,1% degli alunni e al 15,7% della popolazione in età), mentre ben l’8,9% dei bambini di 5 anni è già inserito nella scuola primaria. La presenza di questi bambini anticipatari, accolti quindi in contesti non appropriati all’età, è particolarmente rilevante nelle regioni meridionali e nelle Isole (7,6% di bambini sotto i tre anni nella scuola dell’infanzia e 17,3% di bambini di cinque anni nella scuola primaria). È evidente come la scarsità di nidi e di altri servizi per l’infanzia orienti le famiglie verso un inserimento precoce nell’unico percorso educativo disponibile, con conseguenze che si riverberano su tutto il percorso dell’istruzione. La scuola dell’Infanzia viene così a sovraffollarsi e a caricarsi di compiti educativi che non le sono propri.
5. Ma non basta fermarsi ai soli dati quantitativi. Sempre il rapporto OCSE “Starting Strong II” sottolinea come la qualità rappresenti l’elemento decisivo per valutare i servizi realizzati dai vari paesi. Anche se c’è notevole disaccordo concettuale su cosa significhi qualità per l’OCSE, comunque, servizi carenti possono danneggiare più dell’assoluta mancanza di servizi. In particolare sembra che la dimensione custodialistica tenda ad affermarsi sempre più a scapito di quella educativa dal momento che richiede minori risorse economiche e professionali sia quantitative che qualitative.
6. Indubbiamente la crisi economica e i conseguenti tagli alle risorse degli Enti Locali ha comportato una forte riduzione degli investimenti nelle politiche sociali da parte degli stessi. Il documento del gruppo CRC sopra citato elenca minuziosamente i ritardi e le inadempienze delle politiche per i minori di questi ultimi anni. Ma soprattutto sottolinea come il nostro paese sconti l’assenza di un sistema di politiche per l’infanzia e l’adolescenza, inteso come quadro coerente di leggi, norme, procedure, imputazioni di ruoli e responsabilità, risorse.
7. Non credo che si sbagli se si afferma che la condizione dell’infanzia è peggiorata in conseguenza della crisi economica e delle politiche che sono state condotte per affrontarla negli ultimi anni. Ed è evidente che siano soprattutto i bambini delle famiglie maggiormente investite dalla crisi economica a pagare il prezzo di questo peggioramento: minori servizi, minori opportunità educative, minore equità, minore inclusione sociale. Si veda a questo proposito il rapporto di Save the Children, “Child poverty and social exclusion in Europe”. Non investire sull’infanzia vuol dire non investire sul futuro. La società italiana dei prossimi decenni sarà la conseguenza delle scelte politiche ed economiche di questi anni nei confronti dell’infanzia.
Spiace, perciò, che ne “La buona scuola” di questo non si parli, come se la formazione e l’educazione dei futuri cittadini iniziasse solo dopo i 6 anni.

domenica 2 novembre 2014

Qualche dimenticanza della buona scuola


Si è tenuto martedì pomeriggio al Pomilio un incontro – dibattito su “La buona scuola”. L’incontro è risultato molto stimolante, sicuramente più di quello tenuto qualche giorno fa a L’Aquila che mi è sembrato più formale e “ingessato”.
Il merito, credo, vada senza dubbio a chi lo ha condotto: il Direttore dell’USR Abruzzo Ernesto Pellecchia e l’ex Direttore, Carlo Petracca.  I temi, stavolta, sono stati approfonditi con un respiro ampio che ha senza dubbio contribuito a mantenere elevato il tono della discussione.
Cerco di sintetizzare quelli che, a mio parere, sono risultati gli aspetti più importanti della discussione.
1.    Davanti alle innovazioni è necessario non essere né apocalittici né integrati ma porsi in maniera serena e intelligente. Il documento non è certo perfetto ma l’aver avviato una consultazione estesa su di esso costituisce di fatto un evento importante e inedito nella nostra scuola.
2.    L’eliminazione del precariato per circa 150.000 docenti ha molti aspetti positivi che vanno dalla stabilizzazione professionale (ed esistenziale) di così tante persone all’opportunità per le scuole di avere a disposizione, mediante l’organico funzionale, maggiori risorse. Si tratta di capire come potranno essere in effetti utilizzate tali risorse.
3.    La valutazione dei docenti non è più un tabù. Se ne può parlare e discutere sulle modalità più efficaci per realizzarla, modalità che dovrebbero valorizzare soprattutto la qualità della pratica quotidiana didattica. Ma anche la reputazione professionale può costituire un importante elemento di valutazione.
4.    L’alternanza scuola – lavoro costituisce sicuramente un’importante esperienza formativa che, però, deve essere estesa anche ai ragazzi ed alle ragazze dei licei.
5.    Il documento sembra presentare un eccesso di “istruzionismo” trascurando quella che forse è la vera emergenza: la crisi etica ed educativa della nostra società.
Anche io sono intervenuto nella discussione e ho cercato di portare un contributo segnalando quelle che, a mio parere, sono due importanti dimenticanze del documento che pure ha il merito di aver rilanciato una riflessione ampia e partecipata sul nostro sistema scolastico.
Le dimenticanze riguardano due settori a torto considerati come “marginali” del nostro sistema scolastico.
Il primo è quello della Scuola dell’Infanzia: non mi sembra di avervi trovato accenni nel documento. Eppure l’esperienza e anche la ricerca nazionale ed internazionale da molto tempo ormai ne hanno segnalato l’importanza individuando anzi proprio nella frequenza della Scuola dell’Infanzia un fattore decisivo di riduzione del rischio di insuccesso scolastico nei gradi successivi. E la situazione italiana non è proprio brillante: come ha rilevato l’Unicef in una ricerca del 2008 il nostro paese rispetta i parametri minimi solo di quattro dei dieci indicatori della qualità dei servizi per la prima infanzia. Non può certo consolarci il fatto che altri paesi (come gli Stati Uniti) siano in una situazione peggiore della nostra. Si vedano, a tale proposito, le riflessioni che Norberto Bottani ha dedicato a questa tematica. In realtà il nostro paese non pare che abbia una vera e propria politica per l’infanzia nonostante tutte le affermazioni dei politici che hanno proclamato la difesa della famiglia quale pilastro della propria azione di governo. Ci si augura che il Disegno di Legge n. 1260 attualmente in discussione al Senato possa speditamente condurre alla nascita di una vera e propria politica organica per la prima infanzia con un forte investimento di risorse. Il nostro paese ne ha davvero bisogno.
La seconda dimenticanza concerne invece l’educazione degli adulti. Anche di questo importante settore del nostro sistema scolastico non ho trovato traccia nel documento “La buona scuola”. Eppure anche in questo caso si tratta di un tema centrale e fondamentale che dovrebbe costituire occasione di riflessione e di stimolo specie in un’epoca come la nostra caratterizzata da processi quali la crescita dell’immigrazione, la crisi economica, le profonde e rapidissime trasformazioni culturali e tecnologiche. Sono perciò da condividere alcune delle osservazioni che ha mosso al documento Fiorella Farinelli, che ne ha sottolineato principalmente i silenzi relativamente alle tematiche dell’intercultura. Un investimento sull’educazione degli adulti consentirebbe da un lato di offrire “una seconda possibilità” a quei ragazzi in qualche modo sfuggiti al normale percorso formativo e che, in gran parte, appartengono alle categorie a più alto rischio e, dall’altro, di sviluppare politiche di accoglienza e inclusione per chi proviene da altre culture. I segnali, a questo proposito, non sono proprio incoraggianti: lo testimonia, tra l’altro, la scelta di transitare dagli attuali CTP (Centri Territoriali Permanenti per l’educazione degli adulti – decentrati su base distrettuale e ospitati per lo più presso degli istituti comprensivi) ai futuri CPIA (Centri Provinciali d’Istruzione per Adulti – dotati di autonomia e perciò con un proprio personale, un proprio dirigente scolastico, delle proprie risorse un proprio bilancio) senza un minimo investimento di risorse (umane, finanziarie, materiali).

Spero che il futuro ci porti una maggiore attenzione a questi due importanti settori del nostro sistema scolastico penalizzati forse perché hanno una minore visibilità rispetto agli altri e, di conseguenza, ancora troppo trascurati.