Elenco blog personale

mercoledì 31 dicembre 2014

Buon anno a tutti!!

(Immagine da http://www.frasifb.it/)



Che il 2015 ci restituisca tutto quello che il 2014 ci ha tolto:
- i sogni, i desideri, la speranza ai giovani
- i diritti alle persone che hanno più bisogno di tutele
- il senso di responsabilità a chi deve, per il ruolo sociale che svolge, prendersi cura degli altri
- la dignità del lavoro a chi non ce l’ha o lo ha perso
- la passione per il proprio lavoro ai fortunati che ce l’hanno
- l’orgoglio di essere italiani a tutti noi

lunedì 29 dicembre 2014

Il tema e il corsivo. Due discussioni sulla scrittura


Un paio di temi di discussione apparsi sulla rete e nei quotidiani negli ultimi giorni ci spingono a riflettere  sull’insegnamento della scrittura a scuola.

La prima discussione riguarda il tema. Aperto da un intervento di Francesco Dell’Oro sul Corriere della Sera (La scuola che non sa scrivere), pone l’attenzione sul fatto che le persone della generazione dell’autore (che è il responsabile del Servizio di Orientamento Scolastico del Comune di Milano) non sanno scrivere. E propone perciò l’abolizione del tema in classe e la sua sostituzione con dei laboratori di scrittura. “È così difficile avviare nelle nostre scuole un laboratorio di scrittura? Non costa nulla. Facciamolo! Ma quattro o cinque volte al mese e con due momenti di valutazione nel quadrimestre. L’obiettivo non è quello di misurarli a ogni tentativo di scrittura, ma di appassionarli a questo esercizio. Vivaddio, che si tengano sul banco quello che vogliono. Devono imparare a scrivere! A tritare e a sbrogliare le informazioni. Che è poi quello che facciamo, ogni volta, noi adulti quando dobbiamo preparare un articolo, scrivere un libro o altro.

Gli ha replicato Armando Massarenti su Il Sole 24 Ore (Col tema si impara a ragionare) difendendo, invece,  l'importanza dell'argomentazione, della logica, che sarebbero al centro del tema, di contro alla creatività che si vorrebbe sviluppare nei laboratori di scrittura.
La discussione, francamente, non mi ha entusiasmato. Vi ho ritrovato tesi ed argomentazioni vecchie di decenni lontanissime da quelli che sono gli approdi della ricerca didattica sulla produzione scritta. Credo che il problema sia quello che ho segnalato in altri post di questo blog: la mancanza in molti interventi della stampa e della rete di una cultura scientifica delle cose dell’educazione. Se la discussione, invece di vertere su di una questione didattica avesse riguardato una questione sanitaria o economica o tecnologica credo che si sarebbe richiesto il parere di un esperto, di qualcuno cioè che opera nel settore e che, soprattutto, ha fatto e fa ricerca. Questo non accade praticamente mai quando si parla di scuola. Ecco perché gli interventi nelle discussioni sono spesso di una banalità disarmante.
Più vivace la discussione sul corsivo. Il pretesto è stato fornito dalla notizia, in parte erronea, che in Finlandia è stato abolito l’insegnamento della scrittura in corsivo nella scuola. La questione non è nuova. Già altri paesi si sono orientati nella stessa direzione della Finlandia ritenendolo un oggetto antiquato non più funzionale e perciò inutile. Particolarmente radicale a questo proposito, la posizione di Italo Farnetani pediatra ed esperto del mondo dei bambini e del loro linguaggio. “Dal punto di vista psicopedagogico i bambini hanno bisogno per crescere che ci sia una continuità tra lo stile di vita, la relazione con l’ambiente e quello che gli viene proposto a scuola. Se il corsivo ormai non esiste sui libri che leggiamo, né sul computer, né su Internet, né sugli smartphone, né sui social network, perché usarlo a scuola?”.
Naturalmente ci sono molti che, invece, si sono schierati in difesa dell’insegnamento del corsivo rilevando l’importanza dell’apprendimento del corsivo nello sviluppo psicologico e cognitivo dei bambini e segnatamente “quanto sia cruciale nella crescita, nel rapporto occhio-mano, nella sequenzialità delle parole che si riflette in sequenzialità del pensiero, nell’originalità del tratto e nelle competenze di analisi e sintesi in rapida sequenza. […] Ha una valenza profonda nell’acquisizione di competenze basilari di ordine cognitivo e psicomotorio e di abilità manuali e di pensiero”. (Bye bye, corsivo. E l’America si divide).
Personalmente non ho una posizione ben definita in materia perché non sono un esperto di insegnamento di scrittura ai bambini. Ho solo il ricordo della fatica che ho fatto ad imparare a scrivere in corsivo (ho ancora una pessima grafia come mi dicevano i miei genitori e mi ricordano ancora il DSGA e gli assistenti amministrativi della scuola quando devono leggere ed interpretare i miei appunti scritti a mano). Ma conservo ancora il gusto dello scrivere con la stilografica, su carta di qualità e, soprattutto, mi fa tanto piacere quando ricevo un biglietto di auguri o di saluti scritto a mano. Mi hanno perciò molto colpito le osservazioni contenute in un interessantissimo sito, Scrittura Corsiva, di Monica Dengo.
Ma mi sembra giusto affidarmi agli esperti. Cosa dicono i docenti della primaria in proposito?

sabato 27 dicembre 2014

Buon anniversario, Neuromante!

(immagine da www.librimondadori.it/)

Sono trascorsi esattamente trent’anni da quando fu pubblicato la prima volta il romanzo di William Gibson, Neuromante (Neuromancer). Si tratta di un’opera importante perché è considerata la capostipite di un vero e proprio genere letterario, il cyberpunk. Neuromante forse non è un grande capolavoro letterario: lo stile è per me a volte troppo “barocco” e faccio fatica a seguire il filo della narrazione a causa delle numerose espressioni gergali. Altri romanzi cyberpunk sono forse più riusciti sul piano letterario. Ma si tratta comunque un’opera fondamentale. A differenza di altri romanzi dello stesso genere, infatti, possiede una straordinaria capacità profetica. Anticipa cioè, in maniera davvero sconvolgente, alcuni degli scenari del nostro attuale presente, ben difficili da prevedere trent’anni fa.
Il cyberspazio, innanzitutto. Molto prima che nascesse il World Wide Web Gibson ci parla di una realtà virtuale nella quale una rete universale di dati ha creato un ambiente artificiale all’interno del quale gli umani possono entrare e viaggiare, vivendo sensazioni ed emozioni. Viene tratteggiato poi il dominio pervasivo delle grandi multinazionali dell’informazione che sfruttano il potere loro fornito dal controllo dei grandi archivi di dati. E, non ultime, le radicali modifiche che la tecnologia ha apportato alla vita degli uomini, modifiche che non erano state previste dai suoi creatori. “La strada trova da sola i suoi usi delle cose”: i corpi sono dotati di protesi meccaniche mentre droghe sintetiche e ingegneria neuronale modificano i cervelli delle persone.
La visione cyberpunk è manifestamente pessimistica, nella più genuina tradizione distopica della science fiction americana: “è la constatazione che la tecnologia non possiede un'intrinseca natura se non quella che le viene dai più profondi istinti umani. E poiché nell'intimo siamo ancora più propensi alla sopraffazione che all'altruismo, ecco che la tecnologia (apparentemente pacifica) del XXI secolo può metterci in catene. Non a caso i protagonisti dei romanzi sono degli hacker solitari che vivono ai margini della società, in costante fuga da questa cupa realtà e, in qualche misura, la combattono.” (Nicola La Gioia, "Neuromante", quel capolavoro rivoluzionario che ha anticipato il XXI secolo)
Non potevo non collegare l’anniversario di questo romanzo ad un articolo apparso qualche giorno fa su l’Espresso: Siamo tutti sudditi di Google e Facebook. Si tratta di un articolo che evidenzia il potere acquisito dalle aziende della Silicon Valley “attraverso il controllo dei dati personali di miliardi di persone e dall’immensa forza derivante dal fatto che i loro prodotti - motori di ricerca, mail, social network etc - sono sempre più indispensabili nella vita quotidiana di tutti. E se oggi si facesse un referendum per chiedere se rinunciare a Facebook o al Parlamento, chissà come andrebbe a finire”. Appare uno scenario più simile all’universo distopico di Neuromante che non a quello ottimista descritto da qualche guru del web. Un’analisi altrettanto lucida la possiamo trovare anche nel libro di Federico Rampini, Rete Padrona, la cui lettura consiglio caldamente a chi vuole avere un’idea precisa e critica di dove ci può condurre una tecnologia dell’informazione e della comunicazione senza regole.

Cosa c’entra la scuola in tutto questo? Io credo che rivesta un ruolo molto importante. Deve cercare di resistere alla tentazione delle sirene che illudono che nelle tecnologie ci siano tutte le scorciatoie per risolvere ogni problema di insegnamento ed apprendimento. Deve, soprattutto, educare. Educare all’uso critico e critico della tecnologia, che consenta di rendere la vita migliore a tutti noi e non ci renda dei consumatori dipendenti in balia del potere di pochi.

mercoledì 24 dicembre 2014

Regali di Natale


A Natale il nostro pensiero è occupato dai regali che dobbiamo fare e da quelli che vorremmo ricevere. Provo a pensarci anche io, da dirigente scolastico.
Quali regali possono desiderare le persone che si fanno parte della comunità scolastica?
I docenti, innanzitutto. Credo che desiderino migliori condizioni di lavoro (stabilità, organici adeguati, risorse economiche e materiali idonee, retribuzione dignitosa) ma soprattutto rispetto e considerazione per il loro difficile e faticoso lavoro. Vogliono il giusto riconoscimento, da parte dell’opinione pubblica e dei politici, per l’impegno che dedicano quotidianamente a svolgere un compito così delicato e importante.
Il personale ATA. Penso di non sbagliare se ritengo che sia la categoria del mondo della scuola le cui condizioni di lavoro sono maggiormente peggiorate negli ultimi anni. I tagli del personale rendono molto più gravoso il compito dei collaboratori scolastici costretti a garantire la pulizia e la vigilanza di spazi sempre più grandi, mentre i compiti degli amministrativi si sono resi con l’autonomia sempre più complessi e specialistici. Ma credo che chiederebbero anche una maggiore considerazione per il loro lavoro perché, senza di questo, la scuola non potrebbe assolutamente funzionare.
Credo che i genitori desiderino poi che ai propri figli non manchi niente, nonostante la grave crisi che stiamo attraversando. Vogliono assicurare ai loro ragazzi tutte le opportunità di cui hanno bisogno per potersi realizzare nella vita futura e per questo si sottopongono a dei sacrifici, spesso molto pesanti.
E, infine, i ragazzi. Vogliono un ambiente scolastico sereno che li accolga e li guidi fornendo dei punti di riferimento solidi e precisi. Vogliono crescere e imparare perché conservano ancora il gusto della scoperta e il piacere di riuscire a far bene qualcosa. Vogliono che la scuola li apra al futuro, li aiuti a crescere.
Ma cosa possiamo regalare loro?
Stiamo attraversando un difficile e lungo periodo di crisi. Una crisi che avrà delle lunghe e importanti conseguenze sul futuro perché, come ho già osservato in altri post di questo blog, non colpisce tutti allo stesso modo. In particolare, nel nostro paese soprattutto, penalizza maggiormente chi è meno fortunato. Si ha l’impressione che da questa crisi usciremo, quando ne usciremo, con una società non solo più povera ma anche più ingiusta, con differenze maggiori tra ricchi e poveri, più competitiva e meno solidale, più incolta, con meno diritti per tutti, con minori attenzioni per chi ha più bisogno. La scuola, la scuola pubblica, la scuola di tutti, può avere un ruolo importante per combattere questa deriva facendo in modo di salvaguardare quella qualità che tutela soprattutto chi è più debole ed ha maggior bisogno di una formazione attenta a tutti i bisogni educativi.
Esiste certo una tentazione forte tra gli operatori scolastici ed è quella, di fronte ai tagli e al disinteresse della politica, di fare il minimo indispensabile, di limitarsi a solo quello che si ritiene sia congruo rispetto alle condizioni in cui si lavora. È evidente però che una riduzione quantitativa e qualitativa dell’offerta formativa non può che penalizzare soprattutto chi ha più bisogno, chi dispone di minori risorse, chi è meno supportato dalla famiglia.
Ma non è questa la scelta della nostra scuola. Cerchiamo - anche se questo ci richiede un impegno e dei sacrifici maggiori rispetto al passato - di “non far mancar nulla” ai nostri alunni e alle nostre alunne, cerchiamo di fare in modo che la crisi pesi il meno possibile sul loro futuro e che la società nella quale si troveranno a vivere tra qualche anno sia migliore e non peggiore di quella attuale. È questa la nostra missione e questo è il nostro regalo di Natale alla comunità scolastica.

Auguri a tutti di trascorrere queste feste in serenità accanto ai propri cari e grazie di cuore dell’affetto e della stima che mi avete manifestato in questi giorni!

domenica 21 dicembre 2014

Essere inclusivi conviene?


Le Scienze, nel suo numero di dicembre, ci regala uno stimolante dossier dal titolo “L’equazione dell’inclusione”. Il tema degli articoli che compongono il dossier è quello di analizzare gli effetti positivi sulla ricerca scientifica della diversità di genere, etnia, cultura, status sociale dei ricercatori. Le conclusioni sono univoche: la diversità non fa che bene, anzi fa benissimo alla scienza; l’innovazione non può che passare attraverso il confronto costruttivo tra punti di vista diversi. "La diversità fa bene ai gruppi di lavoro proprio perché noi reagiamo in modo diverso a chi è diverso da noi. Se l'obiettivo finale è l'eccellenza, la diversità è un ingrediente essenziale"
Negli articoli, scritti non solo da scienziati ma anche da manager di grandi aziende, vengono riportati i risultati delle ricerche e delle esperienze dirette in materia che mostrano, in modo univoco, quanto la diversità sia portatrice di innovazione e qualità.
Cerco di riassumere le principali argomentazioni. La diversità accresce la creatività, spinge alla ricerca di nuove informazioni e punti di vista, migliora i processi decisionali e la risoluzione dei problemi. Questo perché quando i gruppi di ricerca sono ricchi di diversità cognitiva e sociale i loro componenti si sforzano e lavorano di più, con più diligenza e apertura mentale. L’omogeneità tende, al contrario, a condizionare verso la pigrizia mentale e alla riproposizione delle solite routine. È indubbio che la diversità “fa soffrire” perché ci obbliga ad uno sforzo maggiore di interazione, ma si tratta di una sofferenza che può essere paragonata a quella dell’allenamento sportivo che ci consente di ottenere prestazioni migliori. Si dice in genere – ed è diventata, questa, ormai un’ovvietà – che i migliori gruppi sono più grandi della semplice somma dei loro componenti. Ma ciò sembra accadere solo quando nei gruppi c’è una significativa diversità. Non basta, però, mettere assieme persone diverse perché si possano generare processi virtuosi. Occorrono alcune attenzioni. In particolare occorre che le differenze all’interno del gruppo siano percepite e riconosciute come tali e non ignorate perché in caso contrario si accentuerebbero i pregiudizi. Ma occorre anche che l’organizzazione nella quale il gruppo di ricerca lavora sia strutturata in modo da favorire l’impegno verso la diversità prevedendo anche responsabili in questo settore ed attività e gruppi di azione.
Molto interessante, in uno degli articoli, l’esempio fatto all’interno degli studi pedagogici. Il punto di vista di ricercatrici femminili ha consentito di rivedere in maniera critica i lavori di Kohlberg sullo sviluppo morale del bambino sottolineando l’importanza di quell’etica della cura che ad uno studioso maschio era quasi interamente sfuggita.
Abbiamo bisogno perciò di diversità se vogliamo cambiare, crescere e innovare. Non ce lo dice, questo, stavolta, un sacerdote, un pedagogista o una persona impegnata nel volontariato sociale. Ce lo dicono scienziati e  manager di grandi aziende. Forse che essere inclusivi, oltre che farci sentire migliori, ci conviene e potrebbe essere una buona maniera per uscire dalla crisi?
Un paio di considerazioni da uomo di scuola. Già da decenni sappiamo come l’inclusione delle bambine e dei bambini disabili abbia rappresentato una grande ricchezza per la scuola. Ce lo ha insegnato la grande tradizione italiana di pedagogia e didattica speciale. Molte importanti innovazioni didattiche nei decenni precedenti sono state progettate, sperimentate e implementate proprio nel campo della disabilità rivelandosi, però, utili per tutti gli alunni. Le difficili sfide poste dall’inclusione, cioè, ci hanno costretti a pensare a cose nuove che si sono poi dimostrate in grado di aprirci nuovi orizzonti e prospettive che hanno allargato il bagaglio di strumenti a disposizione di tutti i docenti. Ricordo che qualcuno paragonava l’inclusione alla Formula 1 che studia e sperimenta innovazioni continue che poi hanno ricadute anche sulla produzione delle vetture che utilizziamo quotidianamente anche noi che non siamo dei piloti sportivi. Si potrebbe perciò dire che l’inclusione ha migliorato la professionalità dei docenti costringendoli ad una prova difficile che li ha spinti a ricercare l’innovazione.
Ma la diversità nelle classi migliora anche le relazioni tra i ragazzi costringendo a cercare modalità comunicative più efficaci, a confrontarsi con realtà diverse, con modi di pensare differenti. Le classi eterogenee – ce lo dice anche l’Invalsi! – raggiungono risultati migliori di quelle caratterizzate invece da bassi livelli di differenza. La diversità è un’opportunità che può portare ad una crescita di grande valore educativo e didattico presso i ragazzi se, naturalmente, adeguatamente accompagnata dalle opportune strategie inclusive dei docenti.

Un’ultimissima considerazione. Qualche anno fa Raffaele Iosa evidenziava l’esistenza di una questione maschile nella scuola italiana, soprattutto a livello dei primi gradi d’istruzione. La percentuale elevatissima di docenti femminili, infatti, a suo parere, costituisce la causa più importante dell'inferiorità maschile nei risultati scolastici (i maschi hanno infatti il primato delle bocciature e degli abbandoni). Occorrerebbe forse una maggiore diversità di genere (con un più ampio numero di docenti maschi, stavolta) all’interno dei team della primaria e secondaria di primo grado?

sabato 13 dicembre 2014

I compiti a casa


Ancora una volta l’OCSE ci pone un’interessante questione educativa: quella dei compiti a casa.
Esaminando i dati relativi alle prove Pisa del 2012 (che, come noto, riguardavano gli studenti quindicenni) emerge che, in media, i ragazzi dei paesi OCSE trascorrono cinque ore a settimana nello svolgimento dei compiti.
In tutti i paesi vengono assegnati compiti a casa. Naturalmente le differenze sono notevoli: si passa dalla Cina – Shanghai in cui i ragazzi dedicano quattordici ore alla settimana ai compiti alla Finlandia e alla Corea in cui, invece, le ore sono tre. I ragazzi italiani si collocano ad un livello elevato: dedicano, infatti, quasi nove ore a settimana ai compiti a casa.
Cosa ci dicono questi dati?
Innanzitutto che la quantità dei compiti non ha un impatto rilevante, una volta raggiunta la soglia delle quattro ore a settimana, sul rendimento scolastico e sulla qualità del sistema scolastico. Altri fattori, quali la qualità dell’istruzione e l’organizzazione della scuola, sembrano rivestire un ruolo molto più importante,
Ma, soprattutto, emerge come esista un forte legame tra lo studio a casa e lo status socio – economico: il maggior tempo trascorso nello svolgimento dei compiti a casa è correlato con migliori risultati scolastici.
I ragazzi meno fortunati, infatti, dispongono di minori opportunità per lo svolgimento dei compiti: spesso non hanno un posto adeguato dove poterli fare, non possono contare sul controllo, sull’aiuto e il supporto dei genitori, non possiedono spesso gli strumenti che li possono agevolare.  
In sostanza, conclude il rapporto OCSE, i compiti a casa costituiscono un’opportunità per l’apprendimento ma possono rinforzare l’effetto delle disparità socio – economiche nei risultati degli alunni.
Le scuole e gli insegnanti dovrebbero, perciò, trovare il modo di incoraggiare e supportare gli studenti svantaggiati nell’esecuzione dei compiti a casa aiutando, ad esempio, i genitori a motivare i figli a svolgere i compiti o fornendo strutture nelle quali i ragazzi che non dispongono di un posto adeguato a casa potrebbero studiare serenamente di pomeriggio.
Il dibattito italiano su questo tema è piuttosto carente, a differenza di quello che avviene nei paesi anglosassoni e in Francia in cui, invece, sono abbondanti gli studi e le ricerche.
Nel nostro paese la discussione sembra essere ancorata prevalentemente a prese di posizione ideologiche pro o contro i compiti a casa: un esempio può essere costituito dal testo di Maurizio Parodi Basta compiti, non è cosi che s’impara, che “senza se e senza ma” rifiuta pregiudizialmente il loro utilizzo come valido strumento didattico.
In realtà la ricerca ha dimostrato come dei compiti a casa non si possa fare a meno. La questione, piuttosto, riguarda la loro qualità. Una sintesi critica dei risultati della ricerca in materia, che si può leggere nell’articolo di Nicole Schrat Carr, Increasing the Effectiveness of Homework for All Learners in the Inclusive Classroom, evidenzia in maniera molto chiara come compiti a casa di qualità producano effetti importanti sui risultati di apprendimento.
La scuola dovrebbe pertanto, con realismo e buon senso, farsi carico della problematica cercando di affrontare i numerosi aspetti che essa contiene.
È quello cha abbiamo cercato di fare nel nostro istituto comprensivo con le “Linee guida sui compiti a casa degli alunni”. Credo che la loro lettura possa essere molto interessante. Potete leggerle all’interno del nostro POF, a pag. 147.

lunedì 8 dicembre 2014

Occupazioni

Ha fatto molto discutere l’intervento che il sottosegretario all’Istruzione, Davide Faraone, ha dedicato al tema delle occupazioni delle scuole da parte degli studenti della secondaria.
In particolare i commenti negativi si sono concentrati su alcune frasi dal contenuto, in effetti, discutibile.
Per il sottosegretario, infatti, le occupazioni sono esperienze “in alcuni casi più formative di ore passate in classeio ho maturato la mia voglia di fare politica, proprio durante un’occupazione e chissà quanti hanno cominciato a fare politica, o vita associativa, o hanno scoperto la passione civile, proprio partendo da questa esperienza. O ancora, quanti sono diventati leader in un’azienda, dopo essere stati leader durante un’occupazione studentesca. Anche in quei contesti si seleziona la classe dirigente”.
Io non vorrei soffermarmi tanto su queste singole affermazioni quanto, piuttosto su un aspetto di carattere generale che emerge dall’articolo del sottosegretario e che merita a mio parere di essere commentato con un po’ più di attenzione.
Si tratta di quell’approccio che potrebbe essere definito “giovanilistico” che pervade tutto il discorso di Faraone. Si ha l’impressione di avere a che fare con una persona matura che parla a dei ragazzi mettendosi sul loro stesso piano, ricordando, con acuta nostalgia, quando anche lui aveva la stessa età e faceva le loro stesse cose, le loro stesse occupazioni. Io non credo che sia l’approccio corretto che un adulto – specie se svolge un importante ruolo istituzionale – deve tenere nel momento in cui si rivolge a dei ragazzi. Dovrebbe conferire alle cose che dice una dimensione educativa. Ma il rapporto educativo si fonda principalmente su di una precisa differenza di ruoli che qui, invece, sembra mancare, interamente assorbita da una retorica dell’ascolto. Ascolto, ascolto, ascolto. È questo il metodo che ci siamo dati – ribadisce non a caso alla conclusione del suo ragionamento il sottosegretario.
Mi si conceda una lunga citazione in proposito, tratta da un libro che considero uno dei più importanti usciti negli ultimi anni sui temi dell’educazione e purtroppo non adeguatamente conosciuto. Si tratta dell’opera di Duccio Demetrio, L’educazione non è finita.
L’educazione è stinta e malaticcia. Perché con battage mediaticamente iterati è andata dilagando una concezione buona (una buona pratica, si suol dire) dell’educazione come ascolto devoto di chi sovente non ha nessuna voglia di essere ascoltato e tanto meno di ascoltare. Viene attuata, con qualche successo indubbio, soprattutto da parte di adulti desiderosi di imparare i malesseri giovanili ed infantili. Vuoi per professione, vuoi per gli iterati fallimenti in famiglia nel venire a capo di bugie, silenzi, intolleranze.
È nata una retorica dell’empatia, del disagio di crescere e dei “bisogni di cura” […] che ai grandi sfuggono quando non si siedano a prestare appunto ascolto a un adolescente che non vede l’ora di chiudere il colloquio al più presto. Senza irridere all’importanza di sapere che cosa il destinatario dell’ascolto desideri, pensi, stia escogitando, è bene non dimenticare che educare è innanzitutto parlarsi, litigare, contrapporsi o, per lo meno, disponibilità ad ascoltarsi a turno e ad armi casalinghe alla pari. È soprattutto affermare, convincere, spiegare, raccontare, ammettere i propri errori. Sono invece gli infanti e i giovinetti che dovrebbero imparare ad ascoltare di più.
Ma gli adulti che si siano dati alla macchia non hanno più tempo né voglia di parlare.
È più comodo e meno frustrante ascoltare. Perché così si mettono l’animo in pace, con rari sensi di colpa.
[…] Siamo noi adulti, e a voce spiegata, suadente, convincente, alta, urlando se necessario pur di far risuonare un’idea autorevole e perentoria, ad avere tale responsabilità. Purché il locutore abbia saputo meritarsi un rispetto dovuto, conquistarsi un prestigio attraverso atti e gesti, ma sempre parlando, sempre raccontando. Soltanto in tal modo le regole educative – per una convivenza arricchita di pensiero, di risposte sincere – possono trovare i loro contorni, i confini da sfidare, da rilanciare per riscriverne insieme di nuovi. (pagg. 68 – 69).
Due ultime, sintetiche annotazioni all’articolo del sottosegretario.
La prima. Naturalmente, la democrazia funziona se ad un certo punto si smette di discutere e si decide. Anche questa è una prerogativa alla quale il governo Renzi non è mai venuto meno: se non si decide si è irrilevanti e inutili e non ce lo possiamo permettere. Così si conclude l’articolo. Detto in altri termini: discutiamo pure ma alla fine le decisioni le prendiamo solamente noi…

La seconda. Occupare una scuola è un’atto illegale. Questo il sottosegretario non lo dice mai. Ma non sarebbe dovuta essere questa la premessa a tutto il discorso da parte di un rappresentante delle istituzioni?