Ha fatto molto discutere l’intervento che il
sottosegretario all’Istruzione, Davide Faraone, ha dedicato al tema delle occupazioni
delle scuole da parte degli studenti della secondaria.
In particolare i commenti negativi si sono
concentrati su alcune frasi dal contenuto, in effetti, discutibile.
Per il
sottosegretario, infatti, le occupazioni sono esperienze “in alcuni casi più formative di ore passate in classe … io ho maturato
la mia voglia di fare politica, proprio durante un’occupazione e chissà quanti hanno cominciato a fare politica, o vita
associativa, o hanno scoperto la passione civile, proprio partendo da questa
esperienza. O ancora, quanti sono diventati leader in un’azienda, dopo essere
stati leader durante un’occupazione studentesca. Anche in quei contesti si
seleziona la classe dirigente”.
Io non vorrei soffermarmi tanto su queste singole
affermazioni quanto, piuttosto su un aspetto di carattere generale che emerge
dall’articolo del sottosegretario e che merita a mio parere di essere
commentato con un po’ più di attenzione.
Si tratta di quell’approccio che potrebbe essere
definito “giovanilistico” che pervade tutto il discorso di Faraone. Si ha
l’impressione di avere a che fare con una persona matura che parla a dei
ragazzi mettendosi sul loro stesso piano, ricordando, con acuta nostalgia,
quando anche lui aveva la stessa età e faceva le loro stesse cose, le loro
stesse occupazioni. Io non credo che sia l’approccio corretto che un adulto –
specie se svolge un importante ruolo istituzionale – deve tenere nel momento in
cui si rivolge a dei ragazzi. Dovrebbe conferire alle cose che dice una
dimensione educativa. Ma il rapporto educativo si fonda principalmente su di una
precisa differenza di ruoli che qui, invece, sembra mancare, interamente assorbita da una retorica dell’ascolto. Ascolto,
ascolto, ascolto. È questo il metodo che ci siamo dati – ribadisce non
a caso alla conclusione del suo ragionamento il sottosegretario.
Mi si conceda una lunga citazione in proposito,
tratta da un libro che considero uno dei più importanti usciti negli ultimi
anni sui temi dell’educazione e purtroppo non adeguatamente conosciuto. Si
tratta dell’opera di Duccio Demetrio, L’educazione
non è finita.
L’educazione è stinta e
malaticcia. Perché con battage mediaticamente iterati è andata dilagando una
concezione buona (una buona pratica, si suol dire) dell’educazione come ascolto
devoto di chi sovente non ha nessuna voglia di essere ascoltato e tanto meno di
ascoltare. Viene attuata, con qualche successo indubbio, soprattutto da parte
di adulti desiderosi di imparare i malesseri giovanili ed infantili. Vuoi per
professione, vuoi per gli iterati fallimenti in famiglia nel venire a capo di
bugie, silenzi, intolleranze.
È nata una retorica dell’empatia,
del disagio di crescere e dei “bisogni di cura” […] che ai grandi sfuggono
quando non si siedano a prestare appunto ascolto a un adolescente che non vede
l’ora di chiudere il colloquio al più presto. Senza irridere all’importanza di
sapere che cosa il destinatario dell’ascolto desideri, pensi, stia escogitando,
è bene non dimenticare che educare è innanzitutto parlarsi, litigare,
contrapporsi o, per lo meno, disponibilità ad ascoltarsi a turno e ad armi
casalinghe alla pari. È soprattutto affermare, convincere, spiegare,
raccontare, ammettere i propri errori. Sono invece gli infanti e i giovinetti
che dovrebbero imparare ad ascoltare di più.
Ma gli adulti che si siano
dati alla macchia non hanno più tempo né voglia di parlare.
È più comodo e meno
frustrante ascoltare. Perché così si mettono l’animo in pace, con rari sensi di
colpa.
[…] Siamo noi adulti, e a
voce spiegata, suadente, convincente, alta, urlando se necessario pur di far
risuonare un’idea autorevole e perentoria, ad avere tale responsabilità. Purché
il locutore abbia saputo meritarsi un rispetto dovuto, conquistarsi un
prestigio attraverso atti e gesti, ma sempre parlando, sempre raccontando.
Soltanto in tal modo le regole educative – per una convivenza arricchita di
pensiero, di risposte sincere – possono trovare i loro contorni, i confini da
sfidare, da rilanciare per riscriverne insieme di nuovi. (pagg. 68 – 69).
Due ultime, sintetiche annotazioni all’articolo del
sottosegretario.
La prima. Naturalmente, la
democrazia funziona se ad un certo punto si smette di discutere e si decide.
Anche questa è una prerogativa alla quale il governo Renzi non è mai venuto
meno: se non si decide si è irrilevanti e inutili e non ce lo possiamo
permettere. Così si conclude l’articolo. Detto in altri termini: discutiamo
pure ma alla fine le decisioni le prendiamo solamente noi…
La seconda. Occupare una scuola è un’atto illegale.
Questo il sottosegretario non lo dice mai. Ma non sarebbe dovuta essere questa
la premessa a tutto il discorso da parte di un rappresentante delle
istituzioni?