Le Scienze,
nel suo numero di dicembre, ci regala uno stimolante dossier dal titolo “L’equazione dell’inclusione”. Il tema
degli articoli che compongono il dossier è quello di analizzare gli effetti
positivi sulla ricerca scientifica della diversità di genere, etnia, cultura,
status sociale dei ricercatori. Le conclusioni sono univoche: la diversità non
fa che bene, anzi fa benissimo alla scienza; l’innovazione non può che passare
attraverso il confronto costruttivo tra punti di vista diversi. "La diversità fa bene ai gruppi di
lavoro proprio perché noi reagiamo in modo diverso a chi è diverso da noi. Se
l'obiettivo finale è l'eccellenza, la diversità è un ingrediente essenziale"
Negli articoli, scritti
non solo da scienziati ma anche da manager di grandi aziende, vengono riportati
i risultati delle ricerche e delle esperienze dirette in materia che mostrano,
in modo univoco, quanto la diversità sia portatrice di innovazione e qualità.
Cerco di riassumere le
principali argomentazioni. La diversità accresce la creatività, spinge alla
ricerca di nuove informazioni e punti di vista, migliora i processi decisionali
e la risoluzione dei problemi. Questo perché quando i gruppi di ricerca sono ricchi
di diversità cognitiva e sociale i loro componenti si sforzano e lavorano di
più, con più diligenza e apertura mentale. L’omogeneità tende, al contrario, a
condizionare verso la pigrizia mentale e alla riproposizione delle solite
routine. È indubbio che la diversità “fa soffrire” perché ci obbliga ad uno
sforzo maggiore di interazione, ma si tratta di una sofferenza che può essere
paragonata a quella dell’allenamento sportivo che ci consente di ottenere
prestazioni migliori. Si dice in genere – ed è diventata, questa, ormai un’ovvietà
– che i migliori gruppi sono più grandi della semplice somma dei loro
componenti. Ma ciò sembra accadere solo quando nei gruppi c’è una
significativa diversità. Non basta, però, mettere assieme persone diverse
perché si possano generare processi virtuosi. Occorrono alcune attenzioni. In
particolare occorre che le differenze all’interno del gruppo siano percepite e
riconosciute come tali e non ignorate perché in caso contrario si
accentuerebbero i pregiudizi. Ma occorre anche che l’organizzazione nella quale il gruppo di ricerca lavora sia strutturata in modo da favorire l’impegno
verso la diversità prevedendo anche responsabili in questo settore ed attività
e gruppi di azione.
Molto interessante, in uno
degli articoli, l’esempio fatto all’interno degli studi pedagogici. Il punto di
vista di ricercatrici femminili ha consentito di rivedere in maniera critica i
lavori di Kohlberg sullo sviluppo morale del bambino sottolineando l’importanza
di quell’etica della cura che ad uno studioso maschio era quasi interamente
sfuggita.
Abbiamo bisogno perciò di
diversità se vogliamo cambiare, crescere e innovare. Non ce lo dice, questo, stavolta,
un sacerdote, un pedagogista o una persona impegnata nel volontariato sociale.
Ce lo dicono scienziati e manager di
grandi aziende. Forse che essere inclusivi, oltre che farci sentire migliori,
ci conviene e potrebbe essere una buona maniera per uscire dalla crisi?
Un paio di considerazioni
da uomo di scuola. Già da decenni sappiamo come l’inclusione delle bambine e
dei bambini disabili abbia rappresentato una grande ricchezza per la scuola. Ce
lo ha insegnato la grande tradizione italiana di pedagogia e didattica speciale.
Molte importanti innovazioni didattiche nei decenni precedenti sono state progettate,
sperimentate e implementate proprio nel campo della disabilità rivelandosi,
però, utili per tutti gli alunni. Le difficili sfide poste dall’inclusione, cioè,
ci hanno costretti a pensare a cose nuove che si sono poi dimostrate in grado
di aprirci nuovi orizzonti e prospettive che hanno allargato il bagaglio di
strumenti a disposizione di tutti i docenti. Ricordo che qualcuno paragonava l’inclusione
alla Formula 1 che studia e sperimenta innovazioni continue che poi hanno
ricadute anche sulla produzione delle vetture che utilizziamo quotidianamente
anche noi che non siamo dei piloti sportivi. Si potrebbe perciò dire che l’inclusione
ha migliorato la professionalità dei docenti costringendoli ad una prova
difficile che li ha spinti a ricercare l’innovazione.
Ma la diversità nelle
classi migliora anche le relazioni tra i ragazzi costringendo a cercare
modalità comunicative più efficaci, a confrontarsi con realtà diverse, con modi
di pensare differenti. Le classi eterogenee – ce lo dice anche l’Invalsi! – raggiungono
risultati migliori di quelle caratterizzate invece da bassi livelli di
differenza. La diversità è un’opportunità che può portare ad una crescita di
grande valore educativo e didattico presso i ragazzi se, naturalmente,
adeguatamente accompagnata dalle opportune strategie inclusive dei docenti.
Un’ultimissima
considerazione. Qualche anno fa Raffaele Iosa evidenziava l’esistenza di una
questione maschile nella scuola italiana, soprattutto a livello dei
primi gradi d’istruzione. La percentuale elevatissima di docenti femminili,
infatti, a suo parere, costituisce la causa più importante dell'inferiorità maschile
nei risultati scolastici (i maschi hanno infatti il primato delle bocciature e
degli abbandoni). Occorrerebbe forse una maggiore diversità di genere
(con un più ampio numero di docenti maschi, stavolta) all’interno dei team
della primaria e secondaria di primo grado?
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