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martedì 21 aprile 2020

Valutare in tempo di pandemia


Ieri ho assistito ad un webinar (che brutto termine...) che ho organizzato per conto della rete  d'ambito 6 sul tema della valutazione nella didattica a distanza. L'esperto, Mario Castoldi, ci ha condotto ad una serie di importanti riflessioni sulla funzione e sul valore della valutazione nella formazione. In effetti l'esperienza della didattica a distanza ci costringe a ripensare un po' tutto il senso del nostro fare scuola dal momento che mette in crisi le abitudini consolidate, le routine didattiche e valutative della didattica in presenza che ci siamo subito accorti che non sono proponibili a distanza.
Questo vale, naturalmente, anche per la valutazione e Castoldi ci ha ricordato come la valutazione sia funzionale all'apprendimento e  non viceversa. Soprattutto oggi a distanza non possiamo certo riproporre il modello tradizionale di prova di verifica individuale tipo prova d'esame. E allora dovremo utilizzare quelle  metodologie e quegli strumenti che ci consentono di attuare una vera valutazione per l'apprendimento che, tra l'altro, ben si presta ad un utilizzo delle tecnologie digitali che ne valorizzi al meglio le potenzialità.
Leggo poi oggi un illuminato intervento di Carlo Petracca sull'esame di terza media: Esame di terza media. Figli di un dio minore?
Petracca polemizza con la decisione contenuta nel decreto legge 22/2020 di non far svolgere l'esame conclusivo del primo ciclo d'istruzione (il vecchio esame di licenza media) nel caso, ormai molto probabile, che non si rientri a scuola entro il 18 maggio. 
Sono numerose le argomentazioni che porta a sostegno della propria tesi ma ce n'è una che mi preme sottolineare ed è quella che ribadisce la funzione educativa dell'esame.
L’esame consiste, come sappiamo, in una serie di prove ed è percepita dagli stessi alunni come una prova. Gli studi di settore e l’esperienza hanno dimostrato che gli adolescenti vanno alla ricerca di prove in ogni campo per costruire le loro identità, per avvicinarsi al mondo adulto, in definitiva per constatare la loro crescita. Spesso sono le cosiddette “prove di coraggio” anche rischiose per la loro incolumità, ma che comunque aiutano a crescere. Nella vita non ci sono solo prove fisiche, ma anche prove in cui dobbiamo fare ricorso alle nostre capacità, alle nostre risorse, alle nostre attitudini. E ne sono molte. Ebbene l’esame finale del primo ciclo è la vera prima prova che l’adolescente si trova ad affrontare. Di fronte ad essa non si pone con indifferenza, ma con un sentimento di attesa e persino di ansia che richiede di raccogliere le proprie energie e di dare prova di sé. Ecco perché l’esame di terza media ha una grande funzione formativa. Abolirla anche in un periodo di emergenza significherebbe privare gli adolescenti di una prova importante.
 In effetti Castoldi e Petracca utilizzano la stessa modalità di analisi e di riflessione: nei momenti in cui l'emergenza sanitaria ci costringe a fare delle scelte noi dobbiamo tornare a riflettere sul senso più profondo della nostra azione. E il senso profondo, il valore, la funzione della valutazione è, comunque, quella di formare, non quella di giudicare e selezionare.



giovedì 16 aprile 2020


La scuola intubata


Bellissimo l’articolo di Alberto Melloni, Il corpo del docente, che compare oggi su Repubblica.
Melloni si occupa ogni tanto di scuola. All'inizio dell’anno scolastico un suo intervento (“Cara prof., le dico solo grazie”) l’ho indirizzato come messaggio di augurio a tutto il personale docente di Chieti 4 e San Giovanni Teatino.
Oggi interviene sulla didattica a distanza e dice cose molto interessanti alla luce anche della sua esperienza di docente del sistema universitario (è infatti ordinario di storia del cristianesimo nell'Università di Modena-Reggio Emilia) che già da tempo la utilizza e, quindi, ne conosce limiti e potenzialità.
L’articolo parla di corpo, appunto, di quella di fisicità che è alla base della relazione educativa e che il distanziamento sociale ha eliminato.
Parla anche del fatto che la didattica a distanza piace molto a chi ha una concezione trasmissiva del sapere, fatta di pillole pre-confezionate da spedire al destinatario.
Ma, soprattutto, sottolinea come fa parti eguali fra diseguali. Non è un caso che usi quest’espressione: Melloni ha infatti curato l’edizione nella collana “I Meridiani” delle opere di don Lorenzo Milani. La didattica a distanza, infatti
rende plastica la distanza fra i figli dei ricchi (con la loro stanzetta singola, la fibra, l'iPad e la carta di credito già pronta per andare a una università vera) e i figli dei poveri a cui il ministero è riuscito a far giungere un tablet la cui webcam racconterà una cucina affollata di fratelli e adorna di angosce (e l'approdo al mondo opaco delle università telematiche e dei corsi telematici nelle università vere). 

Non è questa la vera rivoluzione digitale che può fornire valore aggiunto alla scuola. Deve avere altre caratteristiche.
Tocca e toccherà anche il sapere costruito: ma sa che il sapere si costruisce solo nella relazione. Anziché insegnare in una distanza che riduce il confronto a chat, il pensiero a "pillola", la verifica a e-Proctoring, sa che l'aula è il luogo in cui si formano scienza e coscienza critica, necessarie a possedere competenze e tecnologie che domani saranno necessarie sul lavoro e che oggi decidono della felicità, della democrazia e della salute - come dimostrano i cyberdepressi, i sovranisti e i no-vax.

Del resto la ricerca educativa ci ha ampiamente dimostrato come non è la tecnologia digitale in sé a fare la differenza ma la strategia formativa che la tecnologia stessa implementa.

La trasformazione digitale è dunque strumento necessario nella scuola e nell'università. Come lo era la lavagna ai tempi di De Amicis; ma come la lavagna è e resta strumento. Se sulla lavagna ci scrive Carlo Rubbia o un mediocre imbarcato ope legis, c'è una bella differenza. Se di fronte alla lavagna c'è un ceto filtrato dalle leggi razziste oppure una comunità costituzionalmente "aperta a tutti", cambia molto.

Dunque sono fondamentali le intenzionalità educative e le competenze pedagogiche di chi utilizza lo strumento tecnologico. E questo riguarda quella comunità educante che con grande fatica le nostre scuole stanno cercando di mantenere vive.

La "comunità educante" - che tornerà protagonista con buona pace di quelli che "una lezione a distanza è per sempre" - è il luogo in cui la Repubblica usa ogni strumento necessario per offrire a tutti pensiero critico e rimuove gli ostacoli "che di fatto impediscono" a tutti quella formazione.

Ma è soprattutto la conclusione dell’articolo che mi ha molto colpito.

Non è escluso che il prossimo anno scolastico si debba ricorrere ancora all'insegnamento a distanza, che è stato il modo di intubare la socialità educativa soffocata dalla pandemia. Ma nessuno vuol vivere intubato. Nemmeno il pianeta-educazione in attesa di una transizione che faccia distinzioni necessarie a non fare errori gravidi di conseguenze.

Condivido molto queste lucide considerazioni di Melloni. L’esperienza della didattica a distanza ci presenta delle opportunità ma anche dei rischi rispetto alla scuola che riprenderà dopo l’emergenza. Se sarà migliore o peggiore non dipenderà, comunque, dalla quantità di dispositivi digitali di cui disporrà, ma dalle finalità educative che orienteranno le sue scelte.

martedì 14 aprile 2020

La fase due della scuola


Credo che tutti, ormai, abbiano capito che per quest'anno non si tornerà più in classe.
"La scuola è finita" titola oggi in prima pagina Repubblica.
Mi pare un pessimo titolo che non rende merito a tutti noi operatori scolastici che dal 5 marzo ci stiamo mettendo anima e corpo, giorno e notte, per non spezzare e tranciare bruscamente i percorsi di apprendimento dei nostri allievi, per continuare l'attività didattica sia pur a distanza e con grandi difficoltà. La scuola non è finita perché non riaprono gli edifici scolastici. La scuola continua nonostante il Covid-19, sebbene in altre forme e con altri strumenti, a continuare a svolgere la sua funzione.
Ma è anche evidente che con il maledetto Covid-19 dovremo fare i conti ancora a lungo. Non siamo ancora usciti fuori dal tunnel, il famoso picco non è stato ancora valicato, la discesa non è ancora iniziata. È perciò prevedibile che i tempi di uscita dall'emergenza siano lunghi e, fintanto che non avremo a disposizione un vaccino o delle terapie antivirali sicuramente efficaci, le misure di distanziamento sociale - sia pur meno rigide di quelle di oggi - costituiranno ancora lo strumento più efficace di prevenzione e di lotta. 
Non è un caso, perciò, che l'attenzione oggi si sposta molto su come dovremo gestire la ripresa dell'anno scolastico a settembre. Sebbene sia impossibile fare previsioni su quale sarà la situazione della pandemia in quel periodo, l'esperienza di questi mesi ci sta dimostrando che stavolta non dobbiamo farci trovare impreparati ma dovremo mettere in atto in anticipo tutte quelle misure organizzative che ci consentiranno di gestire al meglio la situazione che troveremo. 
Questa sarà la fase due della scuola.
Non sarà facile conciliare le classi numerose che abbiamo nelle nostre scuole (le classi pollaio) con le esigenze di distanziamento sociale, non sarà facile dare continuità al curricolo se ci saranno ancora delle sospensioni dell'attività didattica in presenza, non sarà facile integrare e recuperare gli apprendimenti compromessi dalla didattica a distanza, non sarà facile riportare nel mainstream tutti gli alunni più fragili che già facevano fatica a seguire con continuità il percorso comune e che la didattica a distanza ha allontanato dalla comunità scolastica.
Ci vorrà audacia: faccio mia qui la scommessa di Baricco. 
Audacia nel capire che la scuola non potrà essere quella di prima, che bisognerà mettere a frutto tutto quanto di positivo ci sta insegnando  l'esperienza della didattica a distanza sul piano della riscoperta dei fondamenti dell'agire educativo e didattico. 
Audacia nell'utilizzare con sapienza - prima di tutto pedagogica - quelle tecnologie che ci hanno consentito di salvare e di tenere in piedi, pur tra mille difficoltà, la scuola. 
Audacia nell'abbandonare vecchie abitudini didattiche e soprattutto valutative che stanno dimostrando tutta la loro penosa inadeguatezza adesso che non possono più trincerarsi dietro le routine spazzate via dall'emergenza.
Audacia nel proporre modelli organizzativi che sappiano alternare momenti in presenza con momenti a distanza, inevitabili con il permanere del rischio Covid-19. 
Audacia nello sfruttare appieno tutte queste possibilità per rendere la scuola più inclusiva. 
E, infine, audacia nella politica che faccia importanti investimenti nella scuola, che non la consideri il bancomat del Ministero delle finanze quando si tratta di fare tagli di bilancio, che abbia - finalmente - una visione della scuola in grado di orientare le sue scelte senza rincorrere interessi clientelari o elettorali.


domenica 12 aprile 2020


Il coraggio nella paura


Massimo Recalcati ci regala oggi un ennesimo bellissimo intervento su Repubblica.
Dopo essere intervenuto qualche giorno fa sullo spunto fornito da Baricco (l’audacia necessaria a uscire dall'emergenza), adesso riflette sull'angoscia che genera il trauma del Covid-19
Non sull'angoscia generata dalla paura del contagio, la prima che abbiamo vissuto e che abbiamo in qualche modo risolto in “un sentimento inedito di solidarietà e di unità nazionale […] Il noi ha prevalso sull'io, il carattere individualistico della libertà ha lasciato il posto all'idea collettiva della libertà come solidarietà”.
Ci parla, invece di un’altra angoscia che sta emergendo adesso: quella della perdita del mondo. Niente sarà più come prima: “i cambiamenti che l'epidemia ci impone non saranno solo misure provvisorie ma altereranno inevitabilmente la nostra vita insieme”. Recalcati evidenzia come la convivenza con il Covid-19 cui necessariamente saremo obbligati comporterà lo “schiacciare i soggetti più fragili in una condizione di totale dipendenza e gettare nell'impotenza quelli con un potenziale generativo più alto. Per i primi l'angoscia è quella di abbandono, per i secondi è quella dell'immobilità. Per gli uni l'angoscia è quella della sopravvivenza, per gli altri è quella della morte professionale e imprenditoriale.”
È questa l’angoscia che viviamo oggi: riaprire alla vita, alla socialità, alla quotidianità in presenza ancora del male, del virus che sarà ancora con noi fintantoché non avremo a disposizione un vaccino o una terapia efficace.
Questa è la sfida alla quale siamo oggi chiamati. “Compito di una comunità è certamente quello della protezione della vita, soprattutto dei soggetti più fragili, ma è anche quello, come accade nel mito biblico del profeta Noè, sopravvissuto alla catastrofe del diluvio, di saper piantare la vigna. Le parti migliori di noi e del nostro Paese sono quelle che assomigliano a Noè; il "resto salvato" dalla distruzione, le forze positive che resistono alla devastazione del male. Ma nel nostro caso la vigna esige di essere piantata anche se attorno c'è ancora morte e distruzione. Non potrà accadere alla fine del diluvio, ma in una zona di transito, fatalmente incerta. È questa la durissima prova di realtà che questo trauma collettivo esige e che non si potrà rinviare”. È questa la situazione in cui ci troviamo: un’instabile zona di mezzo, “non la luce o le tenebre, ma la luce obliqua nelle tenebre; non la paura o il coraggio, ma il coraggio nella paura”.

Saremo in grado di affrontare questa sfida? Quale potrà essere il contributo di noi educatori?

lunedì 6 aprile 2020

La scuola non sarà più la stessa


Leggo su Tuttoscuola di oggi un bell'articolo, i cui contenuti mi sento di condividere in gran parte.

Siamo tutti convinti che la società con la quale avremo a che fare dopo la fine dell'emergenza sarà diversa da quella che abbiamo lasciato nelle settimane passate. Niente sarà più come prima, passato il ciclone del Covid-19. Anche la scuola non sarà più la stessa. Quello che sta accadendo in questi giorni la sta trasformando e ripensando. Sarebbe un grave errore, perciò, pensare che, una volta terminata l'emergenza, si possa ripristinare la situazione passata.

[...]dopo questa fase emergenziale la scuola non potrà essere più la stessa non solo per l’insegnamento in presenza e/o a distanza. 
La scuola non sarà più la stessa nei rapporti tra docenti e genitori, dopo che entrambi hanno avuto concreta consapevolezza reciproca dei rispettivi ruoli e funzioni. 
La scuola non sarà più la stessa, dopo che i docenti sono stati costretti a riscoprire il loro ruolo di educatori in un rapporto più umano ed empatico con i propri alunni.
La scuola non sarà più la stessa, dopo che la tradizionale valutazione degli alunni è stata messa alle corde nella sua formulazione sommativa e gli esami sono stati costretti a scendere dal loro piedistallo per diventare quasi soltanto simulacri del loro passato.
La scuola non sarà più la stessa, dopo che gli organi collegiali, anche nell'imprevista modalità della video conferenza, hanno mostrato i limiti di una funzione diventata ormai superata e anacronistica.  
La scuola non sarà più la stessa, dopo che la comunità prigioniera di questa pestilenza è stata costretta a riscoprirne anche la funzione sociale e vitale per il futuro della ricostruzione.
Per essere veramente SCUOLA, quella che uscirà da queste macerie di dolore dovrà essere ripensata quasi integralmente.
Sarà la riforma del Covid-19. Ma anche dalle tragedie più gravi si può trovare la forza di ricostruire un mondo migliore.

Ci riusciremo? Riusciremo a ricostruire una scuola migliore?

sabato 4 aprile 2020

La cura


Le esperienze e le riflessioni di questi giorni terribili mi stanno facendo riprendere coscienza di un fatto semplice e pure spesso dimenticato.
L'educazione è un lavoro di cura, un prendersi cura degli altri. Lo notavo già nei giorni passati: la passione generosa, l'impegno deontologico con cui la quasi totalità dei docenti si sta dedicando al proprio lavoro sono tutti figli della riscoperta dei valori fondanti del fare scuola. E tra questi c'è quello del prendersi cura.

Ma cosa significa "cura"? Mi aiuta a capirlo un intervento di Maurizio Maggiani nella rubrica che settimanalmente tiene su Robinson dedicato proprio al termine "cura".

Dal latino tale e quale, cura. Ma le sue radici sono di un albero troppo antico per essere inequivoche. La più accreditata è dal sanscrito khu nel senso di battere, nel senso di darci proprio di martello, da cui poi prende la strada per accudere, che vuol dire forgiare, infatti da qui viene l’incudine che serve per quello. Che accudire sia un po’ forgiare ha un suo che, ma che curare sia in definitiva martellare bisogna pensarci un po’ su. Ma avendoci pensato, in fin dei conti cos’è la cura se non un dai e dai, un battere e ribattere? Però khu può anche essere per guardare, osservare, da qui kav, kavi, che è il saggio, in latino cautus, e in cos'altro consiste la cura se non in un assiduo e saggio sguardo? Non è finita, perché c’è anche kur da mettere senza la acca, che è il cuore, in latino cor, e cor urat è che scalda il cuore, che lo conforta oppure lo consuma, a piacere. Così, sincopando, cor urat verrebbe cura. Come potergli dar torto, quale miglior cura che scaldare il cuore, confortarlo, e per troppa cura infine consumarlo? Io metterei tutto assieme. Visto che non si vede l’ombra di un vaccino, non ci resta che curare e curarci come possiamo; a proposito, la cura e il suo verbo sono attivi, passivi e riflessivi, curiamo, siamo curati e ci curiamo.
Dunque curiamo e curiamoci teniamo caldo il cuore magari senza consumarlo, e non cessiamo di volgergli e di volgerci lo sguardo più cauto e più saggio che sappiamo. E infine battiamo e ribattiamo con la tenacia del fabbro sul tasto che tanto duole, osserva le prescrizioni, esegui gli imperativi, ora fallo.

Questo il titolo del suo articolo: Cura. Non c'è niente che scaldi tanto il cuore.

Bellissimo. Una scuola che si prende cura è una scuola che scalda il cuore.

venerdì 3 aprile 2020

Informazione e scuola

Ho seguito ieri una diretta sul sito di repubblica sulle tematiche connesse alla scuola in questo periodo. Mi ha molto deluso. 
L'esperto era un giornalista che sul quotidiano si occupa dei problemi della scuola. Forse sarebbe stato meglio prevedere la partecipazione di un vero esperto (un dirigente tecnico, un dirigente scolastico, un docente di rilievo, un pedagogista...). In realtà - lo noto da parecchio tempo - nelle trasmissioni dei grandi media che si occupano della scuola si invita chiunque perché, in fondo, si ritiene che tutti possono parlare e dire qualcosa sulla scuola. Ricordo che in una puntata di "Che tempo che fa" di qualche anno fa fu affrontato il problema dei compiti a casa e ne parlarono solo Fazio, Gramellini e una giornalista amica dei due... Addirittura ricordo pure una trasmissione RAI in cui si parlava della riforma Moratti nella quale tra gli esperti c'era Serena Dandini. Il sapere dell'educazione è considerato un sapere "minore", sul quale tutti possono pontificare.
La delusione è nata -comunque - principalmente dal fatto che nella diretta si è parlato solo di scuola secondaria di secondo grado. Si è parlato di video lezioni che funzionano tanto bene, di voti, di esami. Nemmeno un accenno a quelle che sono le più pesanti problematiche della didattica a distanza e che viviamo quotidianamente.

Leggo invece stamani un bellissimo servizio su Internazionale: Sei insegnanti alle prese con le lezioni a distanza
Sono sei docenti (una dell'infanzia, due della primaria, due della secondaria di promo grado e uno della secondaria di secondo grado) che raccontano, con franchezza e pacatezza, la scuola che stanno vivendo assieme ai loro bambini e ai loro ragazzi.
Molte cose interessanti che ritrovo anche nei colloqui che giornalmente ho con i miei docenti:

  • le tecnologie sono inclusive o al contrario evidenziano le differenze?
  • le bambine e i bambini, le ragazze ed i ragazzi vedono nella scuola, anche a distanza, un punto di riferimento importantissimo, specie nei momenti difficili come quelli che stiamo vivendo
  • la didattica a distanza, in una situazione di emergenza, non può essere portata avanti senza un ripensamento continuo delle attività
  • la didattica a distanza è bella e smart come si vuole far credere, o è soltanto un surrogato che usiamo in mancanza di meglio?
  • la scuola è soprattutto relazione e l’apprendimento passa attraverso la presenza fisica di docenti e studenti nelle aule
  • ognuno ha spostato sulla piattaforma il tipo di didattica a cui è abituato. Chi in classe faceva una didattica frontale e trasmissiva inserisce sulla piattaforma pagine di esercizi, schede scansionate da innumerevoli guide, video trovati su YouTube e, nei casi fortunati, qualche materiale originale. Nessuno vuole ripensare l’insegnamento per adattarlo alle lezioni a distanza.
Tutti, comunque, esprimono la generosità e la passione con la quale, assieme ai loro colleghi, non si sono tirati indietro di fronte ad un compito inedito e difficilissimo perché il senso etico della professione docente si è rivelato presente nella quasi totalità dei docenti della scuola italiana. E questa è un buon motivo di speranza per quello che ci attende nei prossimi mesi. 

mercoledì 1 aprile 2020


 Prendersi cura


Ho visto, in uno dei tanti servizi che le televisioni dedicano ai medici impegnati in prima linea negli ospedali a combattere il Covid-19, l’intervista ad un dottore che rifletteva, piangendo, sul fatto che le persone contagiate muoiono da sole, senza il conforto di una persona cara, di uno sguardo amico, anche della visione della faccia di uno sconosciuto, coperta dalla mascherina. Singhiozzava per la pena che questo fatto gli procurava, non tanto per la frustrazione di non essere riuscito a salvare la persona.

La cosa mi ha molto colpito.

Oggi ho ascoltato un audio di UmbertoGalimberti e, credo, di aver capito meglio sia perché quell'episodio mi aveva tanto colpito sia il motivo del pianto del dottore.
Galimberti distingue il preoccuparsi dal prendersi cura.
La preoccupazione è un intervento tecnico: individuo la terapia più adatta al tuo caso, somministro i farmaci, controllo gli effetti degli interventi, verifico la tua guarigione, ecc.
Il prendersi cura è invece parlare con te, comprenderti, costruire una relazione significativa.  

Un buon medico è quello capace sia di preoccuparsi sia di prendersi cura del malato. Quel medico era un ottimo medico e piangeva perché questo maledetto virus ci impedisce anche di prenderci cura dei morenti.