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lunedì 8 dicembre 2014

Occupazioni

Ha fatto molto discutere l’intervento che il sottosegretario all’Istruzione, Davide Faraone, ha dedicato al tema delle occupazioni delle scuole da parte degli studenti della secondaria.
In particolare i commenti negativi si sono concentrati su alcune frasi dal contenuto, in effetti, discutibile.
Per il sottosegretario, infatti, le occupazioni sono esperienze “in alcuni casi più formative di ore passate in classeio ho maturato la mia voglia di fare politica, proprio durante un’occupazione e chissà quanti hanno cominciato a fare politica, o vita associativa, o hanno scoperto la passione civile, proprio partendo da questa esperienza. O ancora, quanti sono diventati leader in un’azienda, dopo essere stati leader durante un’occupazione studentesca. Anche in quei contesti si seleziona la classe dirigente”.
Io non vorrei soffermarmi tanto su queste singole affermazioni quanto, piuttosto su un aspetto di carattere generale che emerge dall’articolo del sottosegretario e che merita a mio parere di essere commentato con un po’ più di attenzione.
Si tratta di quell’approccio che potrebbe essere definito “giovanilistico” che pervade tutto il discorso di Faraone. Si ha l’impressione di avere a che fare con una persona matura che parla a dei ragazzi mettendosi sul loro stesso piano, ricordando, con acuta nostalgia, quando anche lui aveva la stessa età e faceva le loro stesse cose, le loro stesse occupazioni. Io non credo che sia l’approccio corretto che un adulto – specie se svolge un importante ruolo istituzionale – deve tenere nel momento in cui si rivolge a dei ragazzi. Dovrebbe conferire alle cose che dice una dimensione educativa. Ma il rapporto educativo si fonda principalmente su di una precisa differenza di ruoli che qui, invece, sembra mancare, interamente assorbita da una retorica dell’ascolto. Ascolto, ascolto, ascolto. È questo il metodo che ci siamo dati – ribadisce non a caso alla conclusione del suo ragionamento il sottosegretario.
Mi si conceda una lunga citazione in proposito, tratta da un libro che considero uno dei più importanti usciti negli ultimi anni sui temi dell’educazione e purtroppo non adeguatamente conosciuto. Si tratta dell’opera di Duccio Demetrio, L’educazione non è finita.
L’educazione è stinta e malaticcia. Perché con battage mediaticamente iterati è andata dilagando una concezione buona (una buona pratica, si suol dire) dell’educazione come ascolto devoto di chi sovente non ha nessuna voglia di essere ascoltato e tanto meno di ascoltare. Viene attuata, con qualche successo indubbio, soprattutto da parte di adulti desiderosi di imparare i malesseri giovanili ed infantili. Vuoi per professione, vuoi per gli iterati fallimenti in famiglia nel venire a capo di bugie, silenzi, intolleranze.
È nata una retorica dell’empatia, del disagio di crescere e dei “bisogni di cura” […] che ai grandi sfuggono quando non si siedano a prestare appunto ascolto a un adolescente che non vede l’ora di chiudere il colloquio al più presto. Senza irridere all’importanza di sapere che cosa il destinatario dell’ascolto desideri, pensi, stia escogitando, è bene non dimenticare che educare è innanzitutto parlarsi, litigare, contrapporsi o, per lo meno, disponibilità ad ascoltarsi a turno e ad armi casalinghe alla pari. È soprattutto affermare, convincere, spiegare, raccontare, ammettere i propri errori. Sono invece gli infanti e i giovinetti che dovrebbero imparare ad ascoltare di più.
Ma gli adulti che si siano dati alla macchia non hanno più tempo né voglia di parlare.
È più comodo e meno frustrante ascoltare. Perché così si mettono l’animo in pace, con rari sensi di colpa.
[…] Siamo noi adulti, e a voce spiegata, suadente, convincente, alta, urlando se necessario pur di far risuonare un’idea autorevole e perentoria, ad avere tale responsabilità. Purché il locutore abbia saputo meritarsi un rispetto dovuto, conquistarsi un prestigio attraverso atti e gesti, ma sempre parlando, sempre raccontando. Soltanto in tal modo le regole educative – per una convivenza arricchita di pensiero, di risposte sincere – possono trovare i loro contorni, i confini da sfidare, da rilanciare per riscriverne insieme di nuovi. (pagg. 68 – 69).
Due ultime, sintetiche annotazioni all’articolo del sottosegretario.
La prima. Naturalmente, la democrazia funziona se ad un certo punto si smette di discutere e si decide. Anche questa è una prerogativa alla quale il governo Renzi non è mai venuto meno: se non si decide si è irrilevanti e inutili e non ce lo possiamo permettere. Così si conclude l’articolo. Detto in altri termini: discutiamo pure ma alla fine le decisioni le prendiamo solamente noi…

La seconda. Occupare una scuola è un’atto illegale. Questo il sottosegretario non lo dice mai. Ma non sarebbe dovuta essere questa la premessa a tutto il discorso da parte di un rappresentante delle istituzioni?

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