Il coraggio nella paura
Massimo Recalcati ci regala
oggi un ennesimo bellissimo intervento su Repubblica.
Dopo essere intervenuto qualche giorno fa sullo
spunto fornito da Baricco (l’audacia necessaria a uscire dall'emergenza),
adesso riflette sull'angoscia che genera il trauma del Covid-19
Non sull'angoscia generata dalla
paura del contagio, la prima che abbiamo vissuto e che abbiamo in qualche modo
risolto in “un sentimento inedito di solidarietà e di unità nazionale […] Il
noi ha prevalso sull'io, il carattere individualistico della libertà ha
lasciato il posto all'idea collettiva della libertà come solidarietà”.
Ci parla, invece di un’altra
angoscia che sta emergendo adesso: quella della perdita del mondo. Niente sarà
più come prima: “i cambiamenti che l'epidemia ci impone non saranno solo
misure provvisorie ma altereranno inevitabilmente la nostra vita insieme”. Recalcati
evidenzia come la convivenza con il Covid-19 cui necessariamente saremo
obbligati comporterà lo “schiacciare i soggetti più fragili in una condizione di totale dipendenza e
gettare nell'impotenza quelli con un potenziale generativo più alto. Per i
primi l'angoscia è quella di abbandono, per i secondi è quella dell'immobilità.
Per gli uni l'angoscia è quella della sopravvivenza, per gli altri è quella
della morte professionale e imprenditoriale.”
È questa l’angoscia che
viviamo oggi: riaprire alla vita, alla socialità, alla quotidianità in presenza
ancora del male, del virus che sarà ancora con noi fintantoché non avremo a
disposizione un vaccino o una terapia efficace.
Questa è la sfida alla quale
siamo oggi chiamati. “Compito di una
comunità è certamente quello della protezione della vita, soprattutto dei
soggetti più fragili, ma è anche quello, come accade nel mito biblico del
profeta Noè, sopravvissuto alla catastrofe del diluvio, di saper piantare la
vigna. Le parti migliori di noi e del nostro Paese sono quelle che assomigliano
a Noè; il "resto salvato" dalla distruzione, le forze positive che
resistono alla devastazione del male. Ma nel nostro caso la vigna esige di
essere piantata anche se attorno c'è ancora morte e distruzione. Non potrà
accadere alla fine del diluvio, ma in una zona di transito, fatalmente incerta.
È questa la durissima prova di realtà che questo trauma collettivo esige e che
non si potrà rinviare”. È questa
la situazione in cui ci troviamo: un’instabile zona di mezzo, “non
la luce o le tenebre, ma la luce obliqua nelle tenebre; non la paura o il
coraggio, ma il coraggio nella paura”.
Saremo in grado di affrontare questa sfida? Quale
potrà essere il contributo di noi educatori?
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