Ancora una volta un’interessante
puntata di Fahrenheit pone stimolanti elementi di riflessione.
Cosa fa buona la
scuola? I bravi maestri? Le metodologie efficaci? L'impegno e i sogni di chi
studia?
La discussione è centrata
sulla professione dell’insegnante con l’intervento di una prossima laureanda in
Scienze della Formazione Primaria, di un insegnante della primaria (Carlo
Lorenzoni che noi conosciamo bene come animatore della casa laboratorio di
Cenci) e di un docente universitario di Storia della Pedagogia e dell’Educazione.
Qualche tema: per fare bene un lavoro occorre la
passione. Se non la si possiede o la si è persa sarà molto difficile riuscire a
stimolare l’apprendimento presso gli alunni. I bambini sono molto più recettivi
ai linguaggi non verbali rispetto a quello verbale per cui percepiscono
benissimo se la persona che hanno di fronte svolge la sua attività con
entusiasmo e convinzione. Del resto, poi, l’emozione provata la prima volta che
ci si accosta ad un apprendimento ne condiziona in maniera molto forte gli
esiti futuri.
Altro spunto: la scuola deve essere migliore
della società. Non deve esserne, cioè, un semplice specchio ma deve essere più
tollerante, più equa, più accogliente, più inclusiva. Ma, comunque, non sono solo
la scuola e gli insegnanti ad educare ma anche il contesto e l’ambiente rivestono
un ruolo determinante. Quale cura e quale interesse nei suoi confronti può
percepire un alunno se si trova in una scuola con i muri sporchi, con le
suppellettili e gli arredi degradati, in un contesto di abbandono e di
trascuratezza? Ma di questo ho già parlato nel mio post di ieri.
Un
intero capitolo (il secondo) de “La buona scuola” è dedicato alla questione
degli insegnanti. Mi sembra di capire che ci sia sicuramente la volontà di
rimotivare gli insegnanti (far loro ritrovare cioè la passione per il proprio
lavoro) attraverso il riconoscimento del merito. Il principio mi sembra
condivisibile perché l’appiattimento sulla progressione di carriera basata solo
ed esclusivamente sull’anzianità di fatto ha prodotto demotivazione e stagnazione.
Il problema principale, credo, consista nel come riconoscere il merito. Il
documento (pag. 52) propone tre sistemi di crediti da documentare in un
portfolio e da valutare da parte di un nucleo di valutazione interno alla
scuola: crediti didattici, crediti formativi e crediti professionali.
Penso
che vada apprezzato il fatto che sono considerati i crediti didattici, vale a
dire quelli che concernono “la qualità
dell’insegnamento in classe e alla capacità di migliorare il livello di
apprendimento degli studenti. Contribuiranno a far emergere le migliori prassi
di insegnamento, assicurando innovazione didattica e, allo stesso tempo,
attenzione per le specificità disciplinari”.
Si
tratta, insomma, della quotidianità del lavoro di classe, di quello che si fa
con i ragazzi, dei risultati educativi e didattici che si raggiungono.
Sono
numerosi però gli interrogativi, che riguardano molto il “come” valutare questi
crediti. Da chi sarà composto il nucleo di valutazione? Quale ruolo avrà il
dirigente scolastico? Come potranno essere documentati questi particolari crediti?
Con i lavori dei ragazzi? Con una relazione? È giusto valutare il singolo
docente o forse sarebbe meglio valutare il team docente dal momento che si
dovrebbe lavorare in squadra e non individualmente?
Vedremo se dalla discussione avviata, alla quale
tutti possono partecipare, usciranno delle proposte praticabili.
Cercherò, nei prossimi giorni, di portare un mio
contributo riprendendo gli esiti di una ricerca che qualche anno fa ha svolto l’USR
Abruzzo sul tema della valutazione dell’insegnamento.
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